La fidanzata del mare: Procida secondo Marotta

Capri è l’isola che vi fa impazzire, diciamo un’amante: Procida è l’isola a cui si vuol bene”.

E a Procida, la più piccola e nascosta delle tre perle del Tirreno campano, Giuseppe Marotta dimostra di voler bene sul serio, tanto da confessare ai lettori di “Vie d’Italia” il sogno ricorrente di andare a viverci, magari in una casetta sul mare, modesta e appartata, in sintonia con l’anima dell’isola, dove il tempo e il silenzio ti sembra di accarezzarli, tanto sono vicini ed amici a chi ha la fortuna di abitarci.

Intanto, mentre vagheggia il suo buen retiro ideale, lo scrittore consegna alle pagine del mensile del Touring Club un ritratto poetico dell’isola a lui così cara, anche per la vicinanza alla sua Napoli, che da giovanissimo ha dovuto lasciare, per la più ricca e moderna Milano, ma nei ricordi e nel cuore non ha mai abbandonato davvero: “Vecchissime canzonette vedono, nel fatto che la piccola città di Procida sorge proprio di fronte a Napoli, motivi sentimentali: dicono, cioè, che Procida e Napoli fanno l’amore. Per densità di popolazione, l’isola non ha rivali nel mondo: troppi testimoni, Procida e Napoli non possono baciarsi sotto gli occhi di tanta gente”, scrive Marotta nell’intenso reportage sentimentale che pubblica nel settembre del ’48 con un titolo che più poetico e affettuoso è difficile immaginare: “Procida fidanzata del mare”.

Di sicuro se ne è innamorato lui, che all’epoca è lo scrittore napoletano più celebre e vive la sua stagione più prolifica e felice: nel 1947 con L’oro di Napoli, uno dei rari best seller su scala mondiale della narrativa italiana del Novecento, l’anno successivo con San Gennaro non dice mai noe nel ’49 con A Milano non fa freddo, tre libri memorabili che grazie all’editore napoletano Alessandro Polidoro, che si è assicurato i diritti delle opere di Marotta, stanno finalmente tornando in libreria.

La descrizione di Procida, sul diffuso periodico del Touring, è quella di un artista in stato di grazia: “Vigneti, uliveti, agrumeti si fiancheggiano nell’isola che Dio fece col migliore verde e col migliore azzurro che gli vennero sotto i pennelli”, è una delle perle che regala Marotta ai lettori e all’intera comunità dell’isola, al pari di un’altra definizione di rara sintesi e potenza descrittiva: “Un paradiso sulla tomba di cinque inferni”, ricordando la natura vulcanica di Procida, testimoniata dalla presenza dei crateri Socciaro, Pizzaco, Chiaia, Terra Murata e Pozzovecchio.

Ma per lui Procida non è solo un’isola incantata, da cartolina turistica: è un’entità viva, corporea, e questa personificazione è la brillante chiave di lettura che percorre tutto il reportage, unitamente al confronto (appena accennato, ma sempre sotteso) con le due isole gemelle più conosciute e mondane. La Procida descritta da Marotta è riservata, laboriosa, accogliente eppure discreta, rispettosa della privacy altrui, e dotata di una bellezza così genuina e luminosa (come la Graziella di Lamartine, citata da Marotta a illustre conferma della sua tesi) da non aver mai sentito la necessità di ostentarla. In altre parole, la sua donna ideale; e le eleganti foto in bianco e nero di Bruno Stefani ne concorrono ad esaltare il fascino discreto e l’operoso silenzio di una comunità che di giorno lavora, sottolinea Marotta, e la sera va a letto presto, dolcemente coccolata dal Tirreno: “Il mare la visita e l’accarezza appena; essa lo guarda da un’altezza massima di un centinaio di metri, ma solo in qualche punto: per tutto il resto della propria superficie preferisce andarsene con lui passo passo lungo le case e i vigneti. Non ha celebri grotte in cui riceverlo e abbandonarglisi; figuriamoci, sono soltanto fidanzati”.

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