DANTE, QUEI FILM MADE IN NAPLES

 Il viaggio cinematografico nell’opera di Dante Alighieri riprende dopo la prima guerra mondiale ancora dal personaggio di Francesca da Rimini, stavolta dal Sud Italia, “in quella Napoli che sin dal principio del secolo si era profilata come una capitale del cinema”, nota Vittoria Colonnese Benni, seconda in Italia solo a Torino.

All’ombra del Vesuvio vengono prodotti due film nell’arco di tre anni, tra il 1917 e il 1919, accomunati da alcune caratteristiche interessanti che non ritroveremo in altri film: il titolo che ricalca un celebre verso del canto V dell’Inferno (rispettivamente Amor ch’a nullo amato…, nel 1917, e La bocca mi baciò tutto tremante, due anni dopo, entrambi familiari all’epoca anche al pubblico italiano meno scolarizzato); la collaborazione al soggetto di un autore anglosassone (nel primo caso Walter Davidson, nel secondo Henry Hag Merey); una casa di produzione dinamica e coraggiosa e tuttavia non adeguatamente attrezzata sotto il profilo finanziario, tecnologico e organizzativo; una trama sostanzialmente fedele al dramma dantesco ma priva di idee originali, e una vita nelle sale piuttosto breve, che spiega la scomparsa delle due pellicole e la penuria di recensioni e notizie.

 

 

Nel caso del primo dei due film, diretto da Eduardo D’Accurso, a stroncarne la breve vita concorse anche la censura, che per motivi non ancora chiariti fece ritirare Amor ch’a nullo amato…dalla circolazione.

Un altro aspetto che ritroviamo in entrambi i film, in questo caso maggiormente in linea con la tradizione “francescana” dantesca, è l’assoluto rilievo attribuito alla protagonista.

In Amor ch’a nullo amato… si trattava di un’attrice quotata e popolare, Bianca Lorenzoni, che “è stata per molto tempo una delle beniamine del nostro pubblico”, afferma Tito Alacci nel libro Le nostre attrici cinematografiche: studiate sullo schermo, edito nel 1919 da Bemporad.

Per la rivista napoletana “La Cine-Fono” la sua presenza era una delle due (uniche) ragioni che potevano meritare l’attenzione della stampa specializzata: “Quest’artista, che ho visto per la prima volta, trovo che è una vera attrice, tanto per la bellezza muliebre, quanto per il suo valore. In questo film la sua azione è assai corretta, sincera, non priva di una certa signorilità”, si legge nel numero del 20 dicembre 1918 nell’articolo firmato con lo pseudonimo Alcione. Una rara stella in una pellicola che presentava più ombre che luci, secondo la rivista, tutt’altro che tenera con l’ambiziosa opera dantesca realizzata dal conterraneo Eduardo D’Accurso, qui nel triplice ruolo di produttore, regista e interprete della pellicola di 1.222 metri, distribuita nel circuito nazionale dalla Megale-Film di Roma: “La trama, però, non è nuova di certo; si può dire anzi che ha tanto di barba – incalza “La Cine-Fono” – e che è di genere non troppo accetto al pubblico. Conseguentemente, vi è da registrare, per la cronaca, un’accoglienza piuttosto fredda”.

Sul pubblico, in questo caso napoletano, non aveva evidentemente suscitato particolari emozioni neanche “la buona fotografia dei superbi esterni girati a Napoli e a Roma”, come riconosce il severo Alcione, probabilmente perché gli aficionados delle sale cinematografiche napoletane erano da tempo abituati alle riprese “dal vero”, che nella copiosa produzione partenopea delle origini assecondavano sia un marketing territoriale ante litteram (non va dimenticato che le produzioni made in Naples erano generalmente molto richieste all’estero, e non solo tra gli emigrati italiani d’oltreoceano) sia una diffusa tendenza al realismo di alcuni pionieri del cinema a Napoli, dai fratelli Troncone a Elvira Notari, la prima regista e produttrice italiana.

Un po’ meno oscura è la vicenda del secondo film napoletano dedicato a Francesca da Rimini, e senz’altro più noti, almeno ai cultori del cinema delle origini, sono i protagonisti di La bocca mi baciò tutto tremante.

Il regista, innanzitutto: il romano Ubaldo Maria Del Colle, che in questo film indossa i panni di Paolo Malatesta (con poca verosimiglianza, come si vedrà), è stato uno dei cineasti più attivi e versatili nei primi decenni del Novecento. Dal 1920 inizierà una collaborazione con uno dei produttori più importanti, Gustavo Lombardo, dopo aver realizzato nell’anno precedente ben quattro pellicole a Napoli: Torna a Surriento, Anime inquiete, Temi il leone, e appunto La bocca mi baciò tutto tremante, lungo 1.345 metri. Tutte prodotte da una donna, circostanza eccezionale per quegli anni (e di cui risulta traccia solo a Napoli): Tina Kassay, che aveva fondato una propria casa di produzione, la Tina Film, per tentare la carriera nel cinema, dove già si era affermata la sorella minore, Tilde, protagonista di diversi film e piuttosto nota al pubblico.

Un sogno durato un solo anno per Tina Kassay, nata Caterina Cassai, a Modena, ma vissuta soprattutto a Napoli: dopo il 1919 non si hanno più notizie né di lei né della sua casa di produzione, ma il suo effimero tentativo le permise di interpretare un ruolo difficile e ambito come quello di Francesca da Rimini, con risultati a quanto pare apprezzabili.

“La Vita Cinematografica”, in una corrispondenza del 7 luglio da Trieste per la proiezione al Cinema “Savoia”, fu prodigo di elogi: “La scelta dei programmi viene fatta con cura e senso d’arte, e ciò si vede dal fatto che tutta la sua numerosa schiera di fedeli frequentatori non ha (sic) diminuito neppure con le giornate canicolari. Così

un affollatissimo pubblico volle vedere La bocca mi baciò tutto tremante e non seppe nascondere tutta la sua viva partecipazione alla squisita proiezione che reca l’immortale verso dantesco come un’orifiamma simboleggiante l’eterna leggenda della vita nostra“.

In tale, entusiastico consenso aveva qualche peso per il competente pubblico di Trieste la recente e a lungo agognata riconquista dell’italianità, di cui Dante Alighieri costituiva da secoli una delle più illustri bandiere?

Difficile escluderlo, soprattutto alla luce dell’accoglienza assai meno lusinghiera che critica e pubblico riservarono al film di Ubaldo Maria Del Colle, a dire de “La Rivista Cinematografica” di Torino, che nel numero del 25 giugno 1921 pubblicò una stroncatura a 360 gradi. Oltre a riferire le perplessità del pubblico sui contenuti, l’autore, che si firma Maxime, infierisce sulla recitazione, soprattutto del regista-attore: “Difatti, come può un Ubaldo Maria Del Colle con la sua struttura fisica massiccia e muscolosa, che ci ricorda un boxeur, incarnare un personaggio di un aristocratico duca, artista pittore per giunta?”.

Non giovò al film anche la ricerca del sensazionalismo, espressa in uno slogan pubblicitario, anche qui, molto più dannunziano che dantesco: “una storia di brucianti passioni, di amori che non conoscono freni, di una vita consumata in dissolutezze“.

La data della recensione de “La Vita Cinematografica” rivela comunque che la pellicola della Tina Film non ha avuto vita effimera ed era ancora proiettata nelle sale due anni dopo il visto di censura, in concomitanza con il sesto centenario dantesco.

 

 

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