Addio Jean-Luc Godard, genio del fallimento

Autore originale del testo: Goffredo Fofi

Con Jean-Luc Godard se ne va un pezzo di storia del cinema e anche di una certa Francia. Lo sa bene il presidente francese Emmanuel Macron che su Twitter gli ha reso omaggio scrivendo: «Addio al più iconoclasta dei registi della Nouvelle vague, aveva inventato un’arte decisamente moderna e intensamente libera. Stiamo perdendo un tesoro nazionale, lo sguardo di un genio». Il mondo del cinema piange questo genio irriverente che da una nota diffusa dalla famiglia «è morto pacificamente in questa casa circondato dai suoi cari». La casa è quella natia di Rolle, in Svizzera. Un parente ha informato la stampa che «la morte di Godard è stata assistita. Non era malato, era semplicemente esausto. Quindi ha deciso di farla finita». Un epilogo a cui aspira Alain Delon che di recente ha detto che a «una certa età l’eutanasia è un diritto». Un cattivo pensiero questo che si impossessò del regista Carlo Lizzani che, esausto anche lui della vita se la tolse, a 91 anni come Godard, nel 2013. E lo stesso fece Mario Monicelli che a 95 anni, nel 2010, si lanciò dalla finestra dell’ospedale romano dove era ricoverato.

C fu un tempo dello scorso secolo, tra la fine dei Cinquanta e i primi Sessanta, in cui esplose in più arti e anzi in tutte, benvenuto e formidabile, il rifiuto degli schieramenti da “guerra fredda”, e si re-imparò a dire io al posto di noi. Una generazione di sperimentatori insofferenti si impose in cinema e in teatro, in musica e pittura, e molto più fiaccamente in letteratura con l’eccezione tedesca e latino-americana. La generazione dei Beatles e dei Rolling Stones, dei Godard e dei Truffaut, dei Grotowski e del Living, delle Varda e delle Chytilova, dei Polanski e dei Tarkovskij, dei canadesi e degli svedesi, degli Oshima e dei Rocha, dei Bene e dei Ferreri Olmi Taviani Bertolucci Bellocchio. Una nuova età dell’oro delle arti che si lasciava alle spalle i lamenti di una guerra mondiale e affrontava il futuro mettendo in discussione, anche nelle strade e nelle piazze, la politika con la kappa dei vecchi e dei nuovi potenti, del bolscevismo e del nuovo capitalismo. Si aveva alle spalle la grande scuola di Francoforte e la grande sociologia statunitense, ma anche i grandi filosofi del personalismo francese, e Orwell, e Camus.

À bout de souffle è del 1960, e nasce nel giro di una giovane critica che si esprimeva in una rivista nuova e combattiva, i “Cahiers du cinéma”, e che non si contentava di mettere in discussione il “cinema di papà” ma voleva darsi alla regia decisamente soppiantandolo. C’erano, è ovvio, posizioni diverse, e per esempio i maggiori rivali del giovane Godard furono a Parigi il suo amico Truffaut meno freddo, più sentimentale (I 400 colpi, e il rispettato ma distante, anche perché politicamente più attivo e di sinistra, Alain Resnais, il cui Anno scorso a Marienbad batteva ancora altre strade, e sembrava spingersi oltre la comunicazione, non solo oltre quella tradizionale anche quella di tutti i giovani arrabbiati.

Godard sorprendeva e sbalordiva nel suo dire accanitamente “io” e nello scompaginare la narrazione per il tramite di cartelli e di citazioni, anche para-brechtiani appresi da Barthes e da Dort e “borghesi” e bensì giornalistici da Marker o Giraudoux, e ben conoscendo gli scandalosi sottoproletari alla Genet e l’irriverente furia di un Céline. Ma alle spalle, il magistero più vero fu quello della libertà rosselliniana (la Nouvelle Vague definiva il nostro autore più libero e irrequieto come il suo Socrate), e di André Bazin sul fronte della critica, entrambi piuttosto “cattolici” mentre Godard, più svizzero che francese, sembrò ad alcuni una sorta di nuova voce protestante.

Per molti anni Godard tenne banco, anno dopo anno, sconcertando o entusiasmando, rinnovando, provocando. Affrontando i temi più scottanti, perfino il maschile e il femminile prima della rivolta femminista, e di petto il cosiddetto neo-capitalismo che si era affermato bensì assieme alla coesistenza pacifica e alla società di consumo, e le cui ambiguità Godard seppe vedere e colpire. “La pubblicità”, si diceva per esempio in un suo film, «è il fascismo del nostro tempo». E Due o tre cose che so di lei non riguardavano solo la protagonista del film (e sì, Godard è stato anche un grande regista proto-femminista!) Due o tre cose che so di lei, una “lei” che si prostituiva per sostenere le sue spese e gli ideali del suo tempo, perché “lei” era anche la regione parigina con le sue nuovissime città-satelliti.

Diciamolo: con Debord e con Habermas, con Lasch e con Pasolini, Godard è stato anche un provocatorio maestro di sociologia e un ricercatore di strade nuove per la politica. Il suo “cinema militante” si volle iper-marxista anzi maoista, ma gli si deve anche l’animazione di un’opera collettiva come Lontano dal Vietnam, e dopo il Maggio la fondazione di un gruppo di cinema militante il più radicale di tutti, nella forma più che nelle parole d’ordine.

Nella critica della contemporaneità occidentale, il punto culmine della sua opera fu certamente Week-end, e quanto alle sue proposte tutto sommato umanistiche il suo film più sorprendente, per una vena religiosa sino ad allora tenuta nascosta e sotterranea, è Je vous salue Marie.

Ma alla fine anche lui si è chiuso in una solitaria disperazione, di fronte alla difficoltà-impossibilità di cambiare il mondo e di cambiare la vita, non solo con i mezzi del cinema, dell’arte. Non devono essere stati felici i suoi ultimi anni, così come non sono felici i nostri. Ha cercato le immagini nuove (“di sinistra”) per raccontare un nuovo mondo che era tutto fuorché simpatico e rassicurante, e il suo fallimento è stato quello di tutti noi, di intere generazioni che ci hanno provato.

Proprio per questo Godard merita il nostro più sincero omaggio, la nostra più sincera riconoscenza, perché ci riconosciamo in tanti nel suo fallimento, che non è stato solo quello della ricerca di un nuovo cinema mentre il cinema andava morendo, e dopo quello vecchio moriva anche il nuovo, anche il suo… ma che è stato anche il fallimento della ricerca di una «nuova società». No, è impossibile guardare serenamente alla sua morte, al suo e al nostro fallimento, al fallimento di una immensa speranza.

Fonte: Avvenire

 

Pubblicato da nuovatlantide.org

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