Nell’assumere la carica di presidente, Gustavo Petro aveva promesso: “Da oggi cominciamo a lavorare affinché più cose impossibili siano possibili in Colombia”. Il nuovo governo non è solo il prodotto delle lotte di anni e della crisi del vecchio regime oligarchico, che ha sempre governato nei duecento anni di vita repubblicana, ma è il risultato delle profonde trasformazioni intervenute nel sentire comune. Data la novità che rappresenta, viene spontaneo chiedersi quale sarà il suo reale margine di azione e fino a che punto arriveranno le trasformazioni.

Il bagaglio ideale, cui Petro fa costante riferimento, è la necessità di riconciliazione e di dialogo come precondizione per una transizione verso un vero progetto democratico basato sulla giustizia sociale. In campagna elettorale, ha fatto appello a tutti gli esponenti politici a unirsi per la giustizia sociale. Una volta vinte le elezioni, ha accettato i membri meno compromessi del vecchio establishment nel suo progetto politico, dichiarando che l’opposizione avrà sempre ascolto presso di lui.

La sua è una convinzione profonda, che gli deriva dall’essere stato militante della guerriglia dell’M-19, dove uno dei comandanti, Jaime Bateman Cayón, aveva posto sul tappeto la necessità di un grande dialogo nazionale che coinvolgesse i vecchi avversari e le differenti correnti politiche. Consapevole della realtà colombiana, Petro non ha mai posto all’ordine del giorno la costruzione del socialismo, scegliendo per se stesso il compito di guidare un governo di transizione che metta fine alla violenza politica e assicuri il rispetto dei diritti della persona. Il suo compito è quello di aprire un nuovo ciclo che finalmente realizzi la democrazia, perché “la cosa più rivoluzionaria oggi in Colombia è la democrazia”, diceva Jaime Bateman Cayón.

All’indomani dell’assunzione della carica, il neopresidente ha voluto imprimere un’accelerazione lungo le tre direttrici del superamento delle disuguaglianze, della fine dei conflitti interni che ancora affliggono il Paese, e del ristabilimento di normali relazioni diplomatiche con il vicino Venezuela.

Il suo primo atto concreto è stata la presentazione – l’8 agosto, il giorno dopo essersi insediato nella Casa de Nariño – della “Riforma tributaria per l’uguaglianza e la giustizia sociale”: un testo che, già nel titolo, rispecchia un passaggio del suo discorso inaugurale, laddove il neopresidente aveva assicurato che “le tasse non saranno confiscatorie, ma saranno semplicemente giuste in un Paese che deve riconoscere come aberrazione l’enorme disuguaglianza sociale nella quale viviamo”. Il progetto di riforma ha l’obiettivo di raccogliere, nel 2023, circa sei miliardi di dollari, pari all’1,78% del Pil, conservando la stabilità fiscale e riducendo disuguaglianze e povertà. Senza voler rivoluzionare la struttura del sistema tributario vigente, il progetto si muove in un’ottica riformatrice basata sulla tassazione progressiva, che punta a pesare maggiormente sulle persone che guadagnano di più, anche se il proposito è quello di fare in modo che, in gran parte, il sistema impositivo poggi sul mondo dell’impresa, ma non in modo indifferenziato. Lo scopo è quello di incidere su alcuni settori economici legati all’estrazione di idrocarburi e carbone, dato che quello della transizione energetica è stato uno dei temi cardine della campagna del neopresidente. In quest’ottica, sottoporre a maggiore tassazione quei settori economici che Petro vuole limitare e auspicabilmente abbandonare, favorisce lo sviluppo dei settori legati alla transizione energetica.

Il testo della riforma tributaria – presentato dal ministro dell’economia, José Antonio Ocampo, ex professore alla Columbia University, e di certo non un esponente della sinistra radicale – introduce anche una tassa sulle plastiche monouso e sulla vendita delle bibite zuccherate e sugli alimenti ultra-processati. Quindi, attraverso la leva fiscale, oltre a tutelare l’ambiente, si vuole salvaguardare la salute, colpendo tutti quei cibi confezionati – come surgelati, fritti, gelati e molto altro –, per i quali numerosi studi scientifici hanno provato un collegamento con obesità (problema sociale in America latina), cancro, malattie cardiovascolari.

La riforma tributaria, nella fattispecie, si propone di raccogliere risorse tassando le persone con un reddito di dieci milioni di pesos al mese o più (al cambio circa duemilaquattrocento dollari), che sono solo il 2% dei colombiani, le aziende finanziarie e del settore estrattivo, le bevande zuccherate e i prodotti che danneggiano l’ambiente. Secondo gli studi fatti dagli economisti, l’effetto sarebbe di ridurre il coefficiente di Gini, dove 0 corrisponde all’uguaglianza perfetta e 1 alla concentrazione di tutto in una sola persona, da 0,514 a 0,491. A seguito della presentazione della sua riforma, Petro, a metà agosto, ha incontrato a Cartagena de Indias una platea di circa duemila imprenditori. Il loro presidente, Bruce Mac Master, gli ha espresso la preoccupazione della categoria, dato che il progetto dovrebbe riscuotere più della metà delle risorse previste per il 2023 dal mondo dell’impresa. La riforma è in discussione al Congresso.

La seconda direttrice dello sprint di avvio del mandato è stata quella della “pace totale” da raggiungere con la riapertura del dialogo con la guerriglia dell’Esercito di liberazione nazionale, e con altri gruppi armati ancora attivi nel territorio. Per rendere concreta questa prospettiva, il ministro degli Esteri, Álvaro Leyva, è volato all’Avana, l’11 agosto, per riannodare il dialogo con i rappresentanti dell’Eln, che risiedono a Cuba. Con l’occasione, il ministro degli Esteri ha respinto la decisione degli Stati Uniti di mantenere Cuba nella lista degli Stati patrocinatori del terrorismo.

I negoziati con l’Eln avevano avuto inizio nel 2017 a Quito, durante il governo di Juan Manuel Santos, e successivamente erano stati trasferiti all’Avana. La presidenza Duque aveva congelato il processo di pace che ora Petro ha deciso di riprendere. A tale proposito Eliécer Herlinto Chamorro, massimo comandante dell’Eln, aveva dichiarato che i colloqui di pace dovevano essere riannodati nel punto in cui erano stati interrotti nel 2018, per volontà dell’allora presidente Duque, che aveva chiesto alla guerriglia di liberare tutti i sequestrati rinunciando alle sue attività.

Dopo la strage organizzata dall’Eln nel 2019 nella scuola dei cadetti di Bogotà, che aveva causato ventidue morti e sessantotto feriti, il governo colombiano aveva chiesto di consegnare i negoziatori che stavano all’Avana. La richiesta era stata respinta dal governo cubano, che aveva invocato protocolli diplomatici. Nella prospettiva di riavviare il dialogo di pace, sono stati da poco revocati i mandati di arresto nei confronti dei negoziatori residenti all’Avana, al fine di consentire loro di tornare in Colombia per potersi consultare con la guerriglia. Infine, sempre recentemente, l’esecutivo ha deciso di sospendere i bombardamenti militari sopra accampamenti guerriglieri nei quali possano trovarsi minori reclutati con la forza, che tante polemiche avevano suscitato al tempo del governo precedente.

Petro ha anche rivolto un appello alle Forze di autodifesa gaitanista della Colombia (Aug), un gruppo di paramilitari confluiti nel narcotraffico conosciuto come Clan del Golfo, affinché accettino i benefici previsti dalla sua proposta di “pace totale”. Alcune fazioni della dissidenza e bande di narcotrafficanti, che si riconoscono nel Clan del Golfo, si sono dimostrati aperti a partecipare al cessate il fuoco, ma senza giungere a un accordo con il governo.

Ai militari, dopo decenni di conflitto interno, Petro ha proposto di trasformarsi in “esercito di pace”, con la “funzione essenziale di difendere la sovranità nazionale” davanti a minacce come il crimine organizzato legato al narcotraffico. E ha chiesto di assumere la difesa della selva amazzonica come “un affare di sicurezza nazionale”, di fronte all’avanzamento della deforestazione.

L’attacco con esplosivo portato, venerdì scorso, nel villaggio di San Luis, nel dipartimento di Huila nel Sud-est della Colombia, durante il quale sono stati assassinati otto poliziotti, è il fatto più grave commesso nel Paese dall’inizio del suo mandato. Petro lo ha giudicato un sabotaggio contro la sua proposta di “pace totale”. L’ex presidente e padre padrone della Colombia Álvaro Uribe, esprimendo il suo dolore profondo, ha fatto intendere che coloro che hanno commesso il crimine sfruttano la supposta impunità che il governo garantirebbe loro. Dal suo account Twitter, Uribe, indagato per frode processuale e manipolazione di testimoni, ha dichiarato che “i terroristi si burlano della generosità, sono sprezzanti con le offerte sociali, rafforzano la loro capacità criminale con l’impunità. Il terrorismo è spaventato solo dall’autorità”.

Ma è poco credibile che l’attentato contro i poliziotti possa interrompere il processo di pace, che Petro ha posto come uno dei cardini del suo governo. Se cedesse su questo, verrebbe meno una delle parti più importanti del suo progetto. Rinnegherebbe tutta la sua campagna elettorale e le indicazioni presentategli dalla Comisión de la verdad, prevista dagli accordi di pace, sui cinquant’anni di violenza politica in Colombia. Quelle verità emerse dal rapporto sono state recepite da Petro, fanno parte della sua azione di governo. Mentre Duque, ancora presidente al momento della consegna del rapporto, si era dato latitante.

Petro è consapevole di avere davanti numerosi e potenti avversari, che vanno dai settori finanziari alle mafie di vario genere, agli eserciti del narcotraffico, all’oligopolio mediatico. Per finire con i grandi proprietari terrieri che temono una riforma annunciata. E in un momento di sua debolezza, c’è da scommettere che faranno di tutto per arrestare l’azione del governo. Basterà la richiesta che il neopresidente ha rivolto alle autorità di spostarsi nel territorio per condurre le indagini a far rientrare l’allarme nell’opinione pubblica? O avrà presa l’appello al ritorno della mano dura che, dietro di sé, ha lasciato solo una lunga scia di sangue?

Colombia e Venezuela condividono una frontiera di 2.219 chilometri, e ciò nonostante non hanno relazioni diplomatiche dal 23 febbraio 2019, quando Maduro decise la fine dei rapporti diplomatici dopo che Iván Duque aveva reso noto di appoggiare Juan Guaidó. Se le relazioni diplomatiche sono state interrotte per quattro anni, la frontiera è stata chiusa per sette.  L’impatto è stato enorme, a cominciare dall’affermarsi di transiti illegali, e dal conseguente aumento della criminalità e degli scontri tra gruppi armati. Per non parlare della moltitudine di colombiani e venezuelani che hanno visto modificare le loro abitudini di vita, a causa di un conflitto che opponeva Maduro all’ex presidente Duque.

Petro, ancora prima di essere eletto, aveva dichiarato di voler riallacciare le relazioni diplomatiche con il vicino Venezuela, e ha nominato ambasciatore a Caracas Armando Benedetti, capo della sua campagna elettorale, che è stato ricevuto al Palacio de Miraflores il 29 agosto da Maduro in persona. Ambasciatore venezuelano a Bogotà è stato nominato Félix Plasencia. Mentre si parla di un prossimo incontro tra i due capi di Stato in ottobre, il ristabilimento dei rapporti diplomatici segna il primo passo di un percorso che richiederà il suo tempo affinché le cose tornino alla normalità, soprattutto nelle zone di frontiera.

La notizia della riapertura dei transiti ha suscitato entusiasmo a Cúcuta, capitale del dipartimento di Norte de Santander, la città più importante della zona di confine, un tempo uno dei valici di frontiera più attivi dell’America latina. Per Petro, costituisce un successo e segna un passaggio obbligato nel suo progetto di pacificazione e di consolidamento della democrazia. Gli è di ausilio nel suo sforzo di riportare sotto il controllo dello Stato un’area che fino a ora era dominio dell’illegalità, e dà impulso a quella trasformazione di lungo respiro della Colombia di cui il neopresidente è ben consapevole di rappresentare solo il momento iniziale.

 

FONTE

Terzogiornale