‘TERZOGIORNALE’ / INFORMAZIONE SENZA LIMITI, EVVIVA

Ecco, di seguito, due stimolanti articoli pubblicati sul sito ‘terzogiornale’, promosso dalla ‘Fondazione per la critica sociale’.

Fondazione messa su da un gruppo di giornalisti intelligenti e, soprattutto, ‘fuori dal coro’, mosche bianche, ormai, con l’aria che tira.

Così, in modo diretto, si raccontano: “Abbiamo aperto questo sito con aggiornamenti quotidiani (dal lunedì al venerdì) per fornire non un ‘primo’ giornale su cui leggere le notizie, non un ‘secondo’, come si usa definire un organo di commenti e approfondimenti, ma un ‘terzo’ che intenda offrire un orientamento impostato ad una rigorosa selezione dei temi e degli argomenti, già ‘tagliata’ in partenza nel senso di un socialismo ecologista”.

Evviva, una volta tanto la chiarezza e in bocca al lupo!

Il comitato editoriale è composto da Agostino Petrillo, Manuela BianchiMichele Mezza, Paolo Barbieri, Rino Genovese, Stefania Limiti.

Di seguito pubblichiamo gli ultimi interventi di Limiti e Genovese.

Rammentiamo ai nostri lettori che Stefania Limiti è una giornalista investigativa di razza, avendo firmato – tra l’altro – un ‘must’ nel campo della contro-informazione, quella autentica. Ossia quel ‘Complici – Caso Moro – Il patto segreto tra Dc e Br’ scritto a quattro mani con un maestro del giornalismo d’inchiesta, Sandro Provvisionato, fondatore dello storico sito ‘Misteri d’Italia’, grande amico della ‘Voce’ e nostra indimenticabile firma per tanti anni.

 

 

La bufala del “Corriere”, giornale interventista

Ancora sui “putiniani”. Il maggiore quotidiano italiano, dal 1915 a oggi, è stato sempre a favore delle guerre, e ha anche una spiccata vocazione governativa

Stefania Limiti

Più passano le ore più la grande bufala della lista dei “putiniani d’Italia” pare essere stata una cortesia – forse non richiesta ma di sicuro gradita – rivolta al presidente Draghi dal giornale più interventista di sempre, dal 1915 a oggi. Un piccolo regalo in vista del prossimo dibattito parlamentare sull’Ucraina, il 21 giugno, quando non si voterà – è vero –, ma dove non sarà gradita una sventagliata di interventi contro l’invio di armi al Paese aggredito dalla Russia, critiche oggi più che mai realiste e di buon senso. Quell’assurda lista, infatti, ha una così scarsa credibilità che non possiamo accettare l’idea che il giornale o le autrici siano caduti in un tranello. Nulla di tutto questo. È gente d’esperienza con le cose ben più serie dei Servizi. Dunque, un’azione consapevole che, vista l’assoluta inconsistenza, deve avere avuto un altro scopo: quello di ammonire le “lingue lunghe”. Un’operazione psicologica di persuasione, che può avere i suoi effetti. Al “Corriere” non costa nulla essere cortese con Palazzo Chigi, anzi.

Di sicuro la faccenda non è andata giù al responsabile dell’Autorità delegata alla sicurezza, Franco Gabrielli. Secondo alcuni rumors sarebbe stato proprio lui l’obiettivo della fuga delle notizie: all’interno dei Servizi, non tutti gradirebbero i suoi metodi accentratori. Non ci convince. Gabrielli è persona autorevole, ma di certo questo non significa che tutti lo amino, ed era certo assai seccato per quello scoop del “Corriere”. Lo abbiamo visto mettere la faccia in una videoconferenza stampa, lui a casa con il Covid, per prendere le distanze da una vicenda proprio squallida, che getta una cattiva luce sul suo operato. “Il documento non è arrivato ai giornalisti perché sceso dal cielo, è stato editato il 3 giugno e quindi le stesse tempistiche fanno ritenere che ci sia stata qualche mano solerte. È una cosa gravissima non tanto per il livello delle informazioni che vengono rese, ma per il fatto stesso che è un documento classificato e che doveva rimanere nell’ambito della disponibilità degli operatori, è una cosa gravissima” – ha ripetuto – “e che ha creato grande discredito. Chi mi conosce sa che nulla rimarrà impunito. Lo dobbiamo al Paese e alla credibilità del comparto”.

Nulla resterà impunito – ha detto il sottosegretario, aggiungendo che nel comparto ci sono “persone di cui volentieri faremmo a meno ma anche tante altre che con onestà fanno il proprio lavoro”. Parole pesanti. Vedremo. Quanto al solerte capo del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, Adolfo Urso, l’uomo che farebbe di tutto per rifarsi una verginità atlantista, è stato a Washington per quattro giorni, ripetendo a ogni angolo che l’Italia rispetta le sanzioni (pure quelle per l’esportazione del grano russo, “che non ci piace, vogliamo solo quello prodotto da Kiev”, ma che ne penseranno gli africani?) e che siamo tutti uniti nella difesa dei valori, ecc.

L’uomo ha avuto in mano questi bollettini, ma – lui dice – dopo la loro pubblicazione. In ogni caso è disorientato, aveva una tale voglia di dare la caccia agli influencer filoputiniani che i suoi consiglieri gli hanno dovuto spiegare che il Copasir può indagare, semmai, solo su quei particolari soggetti che hanno il potere di invocare il segreto di Stato. Tutti gli altri cittadini non rientrano sotto la sua giurisdizione.

In definitiva, questa piccola, brutta (e sporca) faccenda dei “putiniani d’Italia” per il momento resta una vergogna per il giornale più importante del Paese, che ha pubblicato un’evidente patacca per fare cosa gradita al presidente. Roba da ancien régime.

 

 

Il declino degli Stati Uniti nel “secolo lungo”

Rino Genovese

Si assiste al lento declino di quella che fu la potenza egemone della seconda metà del Novecento. Un processo che sarebbe forse addirittura dirompente, se non fosse attutito dal “secolo lungo”, cioè dalla permanenza, in questo primo scorcio del Ventunesimo, delle contraddizioni – ovvero delle ragioni di scontro a livello internazionale – ereditate dal Ventesimo secolo. C’è qualcosa di paradossale in una politica estera come quella dell’amministrazione Biden, che si preparava a una guerra fredda con la Cina – basata su una competizione economica, oltre che sulla dissuasione militare –, e che invece si è trovata ad affrontare una questione caldissima come quella dell’invasione dell’Ucraina, la quale proviene dritto dritto dalla storia di lungo periodo della dissoluzione del mondo sovietico e delle sue guerre intestine. Qualcosa di paradossale ma anche di provvidenziale. Gli Stati Uniti d’America, infatti, hanno sempre avuto bisogno di essere un “impero del bene” contro un “impero del male”: è consustanziale alla stessa nozione di “Occidente libero” che ci sia, dall’altra parte, un mondo oscuro e oppressivo cui contrapporsi. Se Putin non si fosse palesato da sé come quel maniaco panrusso capace di un bullismo geopolitico fondato sul possesso dell’arma nucleare, si sarebbe quasi dovuto inventarlo, come in passato si sono costruiti altri mostri (un nome fra tutti, quello di Saddam Hussein, da piccolo despota locale promosso a minaccia planetaria), al fine di dare carburante propagandistico a una potenza sempre più priva di missione.

Così una Nato che vivacchiava tra la perdita di senso in Europa e la sconfitta in Afghanistan, è ritornata prepotentemente in auge, e perfino Paesi come la Svezia e la Finlandia ora chiedono di entrarvi. Nell’interesse degli Stati Uniti, la guerra in Ucraina deve durare – sebbene i suoi obiettivi non possano essere affatto chiari, mentre solo con una specie di “pari e patta”, spingendo Putin a un tavolo “di pace”, si potrebbe arrivare a indebolirlo politicamente, rendendo evidente – anzitutto agli occhi degli stessi russi – come sia negativo il bilancio, in termini di distruzioni e perdita di vite umane, dell’aver messo le mani su una porzione di territorio, in fin dei conti, limitata.

Ma quando comincia, propriamente, il declino americano? Senza risalire troppo indietro nel tempo, si può dire che abbia inizio dall’11 settembre 2001: da quella scomposta reazione all’attentato, indotta da una presidenza molto sbiadita e da una piccola banda di ideologi (i famigerati neocons, in parte allievi del filosofo ebreo-americano Leo Strauss), che condussero prima alla guerra in Afghanistan contro un regime, quello talebano, con cui una ventina d’anni dopo non si è potuto far altro che venire a patti; e successivamente, nel 2003, all’invasione dell’Iraq per buttare giù un dittatore che con l’attentato non c’entrava nulla. Un progetto neo-imperiale – dall’esito completamente fallimentare, se si pensa agli sviluppi di quelle guerre, anche nei termini di un rafforzamento delle posizioni islamiste radicali a cui si pretendeva di contrapporsi – che avrebbe mirato a ridisegnare completamente un’area ancora strategica per via della vecchia dipendenza dell’economia occidentale dagli idrocarburi. L’Europa nel complesso si adeguò, trascinata dalla potenza americana in due guerre insensate.

Non ci fu solo questo. Con le extraordinary renditions (cioè con i sequestri, le torture e le consegne illegali di presunti terroristi a Stati non propriamente democratici, quando non con la loro detenzione nelle basi segrete della Cia sparse per il mondo), e con la costruzione dell’inferno di Guantánamo, gli Stati Uniti smarrivano la misura del loro tipico mix di violenza e spirito liberale, a tutto vantaggio della prima. Un deciso sbilanciamento verso il menefreghismo circa lo Stato di diritto e verso la crudeltà fine a se stessa – di cui i sadismi nella prigione di Abu Ghraib, nei confronti dei prigionieri di guerra iracheni, resteranno un simbolo – che probabilmente è all’origine, insieme con altri fattori, di una perdurante ondata di violenza “mimetica” nella vita quotidiana americana, che prende la forma di folli sparatorie e uccisioni di massa, spesso sullo sfondo di un rinnovato razzismo.

Si dice che dipenda dalla diffusione delle armi. Certamente dipende anche da questo, ma prima di tutto si tratta di cowboy impazziti. Il mercato delle armi è da sempre libero negli Stati Uniti, il loro uso è diventato nel tempo sempre più nefasto. Ciò sarebbe sufficiente per parlare di una decadenza dello spirito americano, di una corruzione del suo “sogno” – espresso oggi più da Trump, e dai suoi simpatizzanti che danno l’assalto a Capitol Hill, che da Biden. Per chi credeva nella favola di una “democrazia americana” al di sopra dei conflitti, dev’essere stato un duro colpo vedere il suo massimo tempio istituzionale oltraggiato dalla violenza. Per noi – che abbiamo criticato senza sconti il sistema presidenzialistico, i riti delle primarie, e perfino il tranquillo bipolarismo vigente, fino a non troppo tempo fa, tra repubblicani e democratici – si è trattato solo della conferma di una vecchia consapevolezza: bisogna evitare che una caduta finale degli Stati Uniti d’America trascini con sé l’Europa e tutto ciò che di meglio essa ha prodotto (a cominciare dal socialismo).

Purtroppo nel nostro continente, abituato a considerarsi “vecchio”, tarda a farsi strada la coscienza del processo involutivo americano. Ma tra non molto gli Stati Uniti saranno superati economicamente dalla Cina. E se seguiteranno a scherzare col fuoco in Ucraina – pur senza che si arrivi a una guerra mondiale –, stancheranno i loro alleati più di quanto non riescano a sfibrare la leadership russa. L’Unione europea dovrà giungere alla fine a una maggiore integrazione sull’insieme delle questioni aperte, a cominciare da quella di un esercito europeo. Parliamo di qualche anno, non di decenni. Il “secolo lungo” serve oggi a trattenere gli Stati Uniti al di qua della catastrofe, in mancanza di quella svolta che solo una presidenza Sanders (forse) avrebbe potuto imprimere alla politica americana, dandole nuova sostanza.

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