25 maggio: Enrico Berlinguer avrebbe compiuto cento anni: il minimo è un commosso ‘Bella ciao”

Speculatori bellici. Lo pensano in tanti, lo dice quasi nessuno: di là dalle tragiche conseguenze per l’intera umanità, se la guerra in Ucraina non tende alla pace in tempi brevi c’è un perché. La prosecuzione ad libitum coincide con l’arricchimento dell’industria bellica, che solo per citare un’estrema ingerenza è in grado di condizionare l’elezione del presidente Usa. Nel 2010 l’industria militare americana ha donato più di 22,6 milioni di dollari a candidati al Congresso. Chiaro perché Biden privilegia l’invio di armi in Ucraina al dialogo per la pace?

La corsa agli armamenti ha generato utili importanti per le società che li producono e li esportano. Nel 2020 la spesa militare mondiale è stata di 1.981 miliardi di dollari.   Nelle prime tre posizioni ci sono aziende americane: Lockheed Martin, Raytheon e Boeing. Hanno fatturato con la vendita di armi rispettivamente: 58,2 miliardi di dollari, 36,7 e 32,1. Le prime cento aziende del settore fatturano 531 miliardi e fino al quinto posto sono degli Stati Uniti. L’Italia non è nella top ten della classifica globale dei 100 maggiori produttori di armi da guerra.  Le italiane produttrici, Leonardo e Fincantieri, sono in tredicesima e quarantasettesima posizione. Ne ricavano profitti per circa 14 miliardi.

Da russofoni che non hanno mai smentito interessata empatia con l’oligarca number one del Cremlino, Berlusconi e Salvini fingono pietas per gli ucraini e si sbilanciano con un sì agli aiuti chiesti da Zelenski. Il no sarebbero ritenuto vergognoso. Per non rischiare di condannare a chiare lettere l’aggressione ai quasi ‘fratelli’ confinanti e ‘tradire’ l’amico in affari, i due compari protendono per una forma di equidistanza dai Paesi in guerra. La pozione pro Putin del ‘cavaliere’ non è andata giù alla ministra Gelmini. Apriti cielo, “Come osa criticare Berlusconi?” A bacchettare la capodelegazione di Forza Italia – ecco un esempio di fraterna solidarietà – non è stato lo stesso Berlusconi, ma Salvini, seguito nel severo rimbrotto dal diretto interessato. Risultato? Una ferita di non poco conto alla libertà del dissenso e la minaccia di dimettere la Gelmini da ministro, chissà anche l’espulsione da Forza Italia. Ecco, prima di denunciare la repressione antidemocratica della libertà di pensiero che accomuna Russia, Ungheria, Turchia, Cina, conviene chiedersi se l’Italia è un Paese compiutamente garante della libertà, perché fin troppo indulgente con i pericolosi rigurgiti di fascismo e  fortemente repressivo, come dimostra l’episodio Gelmini.

Tra poco meno di venti giorni il popolo del nostro Paese dovrebbe dire la sua con il referendum sul delicato e ingarbugliato tema della giustizia. Davvero difficile districarsi nel labirinto di modifiche e novità proposte. Roba da giuristi e appunto ai giuristi spetterebbe di agire sul sistema con una riforma finalmente migliorativa. È probabile che il referendum non si svolga per mancato quorum di votanti. Si eviterebbero  sì e  ‘no’ a quesiti in buona parte peggiorativi dello statu quo.

Ma lo stretto confondersi di mafia e destra-centro vive ancora con strascichi? Sì, a giudicare dal caso di tale Roberto Lagala, candidato con la lista di Cuffaro a sindaco di Palermo, sostenuto dalla ‘sfrantummata’ destra  (scusate  l’aggettivo in pura, onomatopeica lingua napoletana). Ieri Lagala, nel giorno in cui il Paese, i suoi vertici, il popolo democratico, hanno onorato la memoria di Falcone e Borsellino, ha non era nello spazio sottratto alla mafia, dove Palermo ha ricordato con rinnovato dolore la strage di Capaci. Il motivo dell’assenza? Non un malore, il Covid, il vaiolo delle scimmie: no, il Lagala non è stato presente per ‘ragioni di opportunità’, nel timore (sic) di disordini provocati (questo il falso alibi) dalla denuncia dell’attore regista Pif contro il sistema mafioso: “Avrebbe potuto indurre ad atti di violenza” (ma l’unica violenza è stata la sua!)

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