FRANCO CARDINI / PER CAPIRE COSA SUCCEDE IN UCRAINA

Nell’orgia di fake news che più gigantesche non si può sull’Ucraina propinate a mani basse dai media di casa nostra, nei mari dell’ignoranza storica più abissale, val la pena di cercare qualche bussola di riferimento, ascoltare la voce di chi di storia ne mastica da una vita.

E’ il caso di Franco Cardini, storico, medioevalista doc, oggi professore emerito all’Istituto di scienze umane e sociali aggregato alla Scuola Normale Superiore; nonché Direttore di Ricerca all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi e anche docente alla Harvard University.

Non è certo un pericoloso comunista, piuttosto – come si soleva dire – un conversatore illuminato.

Ha fatto parte consiglio d’amministrazione RAI dal 1994 al 1996. Una vera mosca bianca, Cardini, in quello sgangherato carrozzone, come dimostrano oggi in modo clamoroso le performance serali, per il Tg2, del direttore Genny Sangiuliano, nato come portaborse di ‘Sua Sanità’ Francesco De Lorenzo, poi suo portavoce, e ora ‘storico’, grazie alle biografie dei potenti (tra cui proprio Putin), autentici Bignami (li ricordate?) per tutti gli usi.

Dal 2013 al 2017 Cardini ha fatto parte del comitato scientifico per i programmi della terza rete “Il Tempo e la Storia” e “Passato e Presente”.

Vi proponiamo, per cominciare a capire sul serio quel che sta succedendo in Ucraina e non a botte di demenziali slogan, alcuni freschi testi dal suo imperdibile blog, “Minima Cardiniana”.

 

Dal Vangelo di oggi (Luca, 6, 41-42)
“Perché guardi la pagliuzza ch’è nell’occhio del tuo fratello e non t’accorgi della trave che è nel tuo occhio? Come puoi dire al tuo fratello: – Fratello, lascia che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio -, mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo occhio? Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello”.

 

NEL DONBASS NON CI SONO BAMBINI CHE ABBRACCIANO PIANGENDO LE BAMBOLINE, E NEMMENO VECCHIETTE CHE ATTRAVERSANO PENOSAMENTE LA STRADA…
… così come non ce n’erano né la traccia né l’ombra, una manciata di anni o di mesi fa e anche adesso, né a Gaza, né a Beirut, né a Belgrado, né a Kabul, né a Baghdad, né a Tripoli, né a Damasco.
Cari miei, parliamoci chiaro. Sono ormai tre notti che quasi non dormo per seguire quel che avviene tra Russia e Ucraina, due paesi che mi sono carissimi e dove ho tanti amici; da tre giorni sto attaccato al telefono e al computer. Anch’io combatto, anch’io fo la mia guerra, come canticchiavano un’ottantina di anni fa bambini poco più grandi di me (io ero troppo piccolo per cantare). Questa guerra me la sento addosso, me la sento dentro: e mi fa male. Al tempo stesso, è chiaro che sono indignato e inferocito come forse non mai.
Fermare la guerra. Era già in atto da tempo, ma “l’Occidente” – questa parola infame e ambigua, che oggi sembra tornare di gran moda – non faceva nulla per ridurre il governo ucraino a più moderati consigli. Al contrario. L’aggressività di Zelensky nei confronti del Donbass si fondava sulla ferma convinzione che la NATO fosse disposta a tutto pur di metter a punto il suo disegno di avvicinarsi varie centinaia di chilometri alla frontiera russa e installarvi i suoi missili a testata nucleari puntati su Mosca, quelli in grado di colpire a oltre 3000 chilometri. Il governo russo ammoniva severamente, poi minacciava: ma si era sicuri che non avrebbe osato. Invece alla fine ha osato eccome. Non come aggressore, ma come a sua volta minacciato di aggressione.
Fermare la guerra. È questa la priorità. Forse si sarebbe dovuto agire prima: da parecchi giorni ormai la stretta ucraina sulle città del Donbass si era fatta più pesante, mentre Zelensky insisteva per essere ammesso nella NATO in extremis. Era una speranza disperata, una follia: ma era non meno chiaro che Putin prendeva in considerazione tale possibilità estrema, che se si fosse verificata gli avrebbe definitivamente legato le mani oppure costretto a considerarla come una dichiarazione di guerra de facto. Ma il presidente ucraino andava irresponsabilmente per la sua strada, certo di avere il gigante americano alle sue spalle. È incomprensibile, ma non si era reso conto che Putin a quel punto poteva fare solo quello che ha fatto: e farlo subito.
Fermare la guerra. Era la priorità fin dall’inizio. A livello diplomatico, quando una guerra incombe, si ricorre a trattative magari affrettate, magari “in perdita”, perfino col rischio di apparire deboli. Si fanno proposte, e quindi bisogna anche offrire qualcosa di appetibile. Ad esempio esporre in che misura e fino a che punto si è disposti ad alleviare un sistema sanzionario in atto a fronte di un arresto o di una ritirata del nemico ch’è ancora potenziale. Da quando in qua si risponde a una minaccia di guerra aggravando le ragioni che l’hanno provocata, a meno che quella guerra non la si voglia sul serio e a tutti i costi?
Ora, ecco qua. Un’aggressione degli ucraini contro il Donbass è irrilevante: non la si vede da lontano, ha modestissime dimensioni e può essere “dimenticata” tantopiù che i russofoni della foce del Don non interessano a nessuno in Occidente. Ma quando si muove l’Orso di Mosca, tutto cambia aspetto: e giù col mostro aggressore, col tiranno assassino. Giù con i media asserviti quasi tutti alla politica (quindi al parlamento italiano eletto con un numero di votanti così basso come prima non si era mai visto), la quale con i suoi partiti esangui, sempre meno autorevoli presso la pubblica opinione e sempre più omologati – fra il “patriottismo sovranista” della Meloni, l’euratlantismo blindato di Renzi e l’euratlantismo solo apparentemente più articolato di Letta non c’è pratica differenza – è a sua volta asservita agli alti comandi della NATO e al presidente degli USA, a sua volta asservito alla logica del potere, del profitto e della produzione dettatagli dai Signori di Davos. Che poi questi ultimi comincino a loro volta a preoccuparsi per le ripercussioni delle sanzioni alla Russia, è un altro discorso: e ne vedremo in atto le conseguenze fra qualche giorno.
Attenti quindi al pacifismo peloso di chi si preoccupa per i suoi interessi e i suoi profitti: se Mosca piangerà, non rideranno né Wall Street, né la City, né Francoforte. Questo è quanto preoccupa ora lorsignori, non certo i disagi e le sofferenze della gente. Mentre si continuano a ignorare o a fraintendere i segnali. Ad esempio, i russi indugiano a sottoporre Kiev alla stretta finale. Davvero si crede che siano stati impressionati dal fatto che il governo ucraino ha fatto girare qualche fucile tra gli adolescenti e i vecchietti? Davvero non ci sfiora il sospetto che stiano fermi in quanto sono in corso trattative e Putin intende dare agli ucraini il tempo d’una pausa di riflessione che, se volesse, potrebbe tranquillamente negare?
Ma intanto sono senza dubbio le vittime del momento a salire al proscenio e ad essere sistemati nelle lucenti vetrine massmediali. Che c’inondano di bambini e di bambine che piangono abbracciando orsacchiotti e bambolette e gattini, di vecchiette che penosamente attraversano le strade sotto i bombardamenti, magari perfino con quel Grandguignol di volti insanguinati e di cadaveri dilaniati che specie in TV è oggetto da sempre di un trattamento bipolare: vi sono cadaveri di serie A che si debbono mostrare per trasformarli nella moneta sonante del consenso e cadaveri di serie B che è meglio nascondere per non “turbare” chi li vede. Ed è evidente che i morti di Kiev ucraini sono di serie A: come le bambine che piangono avvinghiate agli orsacchiotti e le vecchiette che penano ad attraversare la strada per porsi al riparo.
Ma di grazia, razza di vipere e sepolcri imbiancati che non siate altro; ci voleva Kiev per svegliarvi all’umana compassione suscitata per ricavarne risultati politici antirussi? È vero che, in un passato anche recente, le città di Gaza, di Beirut, di Belgrado, di Kabul, di Baghdad, di Damasco, erano piene di cadaveri di serie B dei quali non si doveva parlare per non “turbare” le nostre coscienze, ma davvero non vi eravate accorti della massa di sofferenza che i nostri bombardamenti “chirurgici” e le nostre bombe “intelligenti” stavano provocando? Anzi, mi ricordo i gridolini di gioia che si alzavano dai salotti delle buone famiglie italiane, in quelle notti del 2003 in cui la TV ci mostrava il bombardamento di Baghdad, con il fantastico sfrecciare di quei raggi verdi sugli edifici presi di mira. Che spettacolo! Ci pensavate alla pena e al terrore là sotto? Bene: ora è il turno degli ucraini per soffrire e per aver paura. Domani potrebbe arrivare anche il nostro turno, e pensare che ci preoccupiamo già del gas per il riscaldamento. Se comincia così, la nostra volontà di resistenza…
Lavoriamo per la pace, dunque. Ma facciamolo con realismo, senza piagnistei e senza isterismi manichei. Manifestare per la pace ma al tempo stesso “schierarsi con l’Occidente”, “senza se e senza ma”, significa solo contribuire a correre a passo di carica verso una prosecuzione e un allargamento del conflitto che non può giovare a nessuno. Le guerre, le perdono tutti.

Minima Cardiniana 367/3

MARINA MONTESANO
LE STRAGI DIMENTICATE

All’indomani dell’invasione russa in Ucraina, i media mostrano le tristi immagini della popolazione in fuga dal conflitto: sono le vittime inermi dinanzi alle quali ogni guerra non può che risultare più che ingiusta, oscena. La presidente della commissione europea, Ursula von der Leyen, ha ricordato i bambini, prime vittime, e accusato Putin di aver riportato la guerra in Europa dopo la seconda guerra mondiale. E tuttavia, la presidente ha la memoria corta: la guerra in Europa c’era già stata nei Balcani negli anni ’90, culminata con i bombardamenti della NATO su Belgrado, anch’essa una capitale europea. Come ricordava Luciana Castellina sul Manifesto: “Il 24 marzo, alle 20.25, il primo bombardamento su Belgrado; il 26 le ‘operazioni’, chiamate interventi umanitari, sono già 500. Dureranno 78 giorni e scaricheranno 2.700 tonnellate di esplosivo”.
Diverse migliaia di civili sono morti in quei “bombardamenti umanitari”, in largo numero partiti dall’Italia, inclusi pullman colmi di persone colpiti mentre attraversavano ponti, inclusi gli stessi kosovari per i quali in teoria si combatteva, massacrati dai bombardieri mentre fuggivano dalla guerra. Non c’erano bambini dei quali preoccuparsi, a Belgrado? C’erano, però i loro volti non sono comparsi sui nostri giornali; neppure anni dopo, quando hanno continuato a essere falcidiati dall’insolito picco di tumori infantili causati dall’uranio impoverito (umanitario?) con cui erano fatte le bombe della NATO. Continua Castellina: “È la prima volta che con tanta spudoratezza si è proceduto ad una applicazione selettiva dei diritti. In questo caso quello dell’auto-determinazione dei popoli, riconosciuto, in Europa, ai soli kosovari, che diventano quindi automaticamente ‘patrioti’, sebbene la risoluzione 1160 del 3 marzo 1998 del Consiglio di sicurezza dell’Onu avesse definito ‘terroristi’ gli attacchi dell’Uck. Contemporaneamente, e come conseguenza, contro ogni principio sancito dai trattati dell’Unione europea, secondo cui deve esser rifiutato il pericoloso nesso etnia-cittadinanza, si appoggia l’ipotesi di stati etnicamente fondati”.
Insomma, il precedente c’è, e l’abbiamo dato noi. E non parlo nemmeno delle guerre lontane, esterne all’Europa, come l’invasione dell’Iraq su basi che ormai tutti sappiamo essere state completamente pretestuose (le armi di distruzione di massa), sappiamo pure da chi tali mastodontiche bugie sono state costruite (i governi Bush Jr. e Blair), sappiamo che hanno causato almeno mezzo milione di morti, sappiamo che furono usate armi proibite dalle convenzioni internazionali (il fosforo bianco sui civili di Falluja), sappiamo che nessuno degli ideatori di tali colossali fake news (uso un termine che oggi va di moda) è mai stato perseguito (anzi vivono tutti ricchi e tranquilli), eppure non ricordo di aver visto in giro le foto dei profili sui social media con la bandierina irakena, così come ora vedo per l’Ucraina. Evidentemente non tutte le morti sono uguali; evidentemente i media hanno un peso nel condizionare le nostre reazioni. Oggi passano sui nostri schermi o sui social le foto di cittadini ucraini che mettono in salvo cani e gatti, oltre al classico delle incubatrici con i neonati, già un cavallo di battaglia della propaganda americana a proposito del Kuwait prima della guerra del Golfo del 1993[1]: per ogni guerra si reiterano le stesse immagini di propaganda e gli occidentali dalla memoria corta e dalla lacrima a comando tirano fuori i fazzoletti. Se le immagini non ci sono (vedi l’Iraq, l’Afghanistan, lo Yemen, Belgrado) nessuno si commuove.
I media, con poche eccezioni, in questa storia hanno un ruolo rilevante. Per quante giornate della memoria ci affanniamo a istituire, quelle dell’oblio mi paiono assai più frequenti. Nell’oblio sembrano essere caduti tutti i passi che sono stati compiuti da un’Ucraina che si è fatta forte del sostegno americano: ma le è servito? Non servì alla Georgia agli inizi degli anni ’00, passata dall’alleanza con la Russia (con la quale intratteneva ottimi rapporti economici e dove vendeva i suoi ottimi prodotti che ora nessuno compra più) a quella con gli Stati Uniti di Bush Jr.; anche lì era stato fatto credere che ospitare le armi americane e combattere le guerre al confine, ove la popolazione russa era più presente, sarebbe convenuto al paese, che adesso si ritrova con una popolazione immiserita, largamente diasporica, con le pensioni e gli stipendi da fame, con i vini pregiati e i prodotti alimentari invenduti, perché gli amici europei e americani non se ne fanno niente. E tuttavia, almeno fra i giovani, circola la convinzione che il nemico sia la Russia.
Il presidente che avviò questo processo virtuoso, Mikheil Saak’ashvili, in carica fra 2004 e 2013, nel 2014 è stato messo sotto accusa dalla magistratura del suo paese, per bazzecole che includono frodi e omicidi; naturalmente, Stati Uniti e Unione Europea si sono espresse contro la magistratura, ma intanto Saak’ashvili si è trasferito in Ucraina. Qui il governo del paese ha pensato bene di dargli il governo della regione di Odessa; ha anzi acquistato un pacchetto, con la mediazione del politico francese dell’UE Raphaël Glucksmann, che con Saak’ashvili ha scritto un libro su (indovinate?) “la libertà”, e che ha sposato in prime nozze Eka Zgouladze, vice ministro degli Interni in Georgia. Glucksmann si interessa dei diritti umani di tutti, fuorché dei georgiani, visto che prima della fuga di Saak’ashvili e Zgouladze, erano venuti fuori video delle torture subite dai prigionieri nelle carceri del paese; insomma, la bella coppia riceve la cittadinanza ucraina e va a governare Odessa. A causa del suo buon governo, Saak’ashvili viene espulso anche dall’Ucraina, divenendo apolide, poiché nessuno vuole ridargli il passaporto: fino a quando il nuovo presidente ucraino Zelenskyy, nel 2019, lo reintegra e lo nomina a capo del Consiglio nazionale delle riforme. Mentre era a Odessa, e con il suo avallo esplicito, dal momento che aveva accusato gli “elementi antisociali”, le milizie neonaziste insieme con la popolazione di Loshchynivka, hanno condotto un pogrom selvaggio contro la popolazione romanì dell’area, costretta ad abbandonare le proprie case e fuggire.
D’altra parte, le stesse milizie nel 2014 avevano massacrato decine di civili russi, ammazzati a sangue freddo mentre si erano rifugiati in un edificio per sfuggire ai disordini in strada. Peraltro, la guerra in Ucraina c’è stata dal 2014 in poi, visto che il conflitto nell’est del paese ha fatto migliaia di morti, con l’evidente volontà delle milizie neonaziste di condurre una pulizia etnica a danno dei russi, che in quell’area rappresentano una fetta consistente della popolazione. In questo caso, a quanto pare, la pulizia etnica non finisce alla Corte internazionale di giustizia dell’Aja. C’è stato persino il caso di Andrea Rocchelli, il reporter-fotografo italiano ucciso dagli stessi miliziani ucraini, sempre nel 2014, nel Donbass: un’uccisione sulla quale ha indagato la magistratura italiana, che ha individuato responsabilità precise, ma che pure è stato negato e del quale evidentemente oggi non importa più a nessuno, tanto meno ai suoi colleghi giornalisti che oggi seguono gli eventi.
Così come non ha più eco la clamorosa strage del 20 febbraio 2014, quando nelle proteste contro il governo filorusso si dice che le forze governative spararono sulla folla, facendo vittime fra i civili e persino fra i poliziotti. Fu l’episodio che decretò la fine del governo e diede corso a tutto ciò che è avvenuto dopo, fino agli eventi contemporanei. Nel 2018, una puntata di Matrix, insieme alla stampa italiana (almeno il Manifesto e il Giornale ne parlarono ampiamente) e a quella israeliana, rivelarono come a sparare furono in realtà cecchini georgiani assoldati da un americano sotto copertura. Anche in questo caso, Mikheil Saak’ashvili è protagonista. Dal Manifesto: “Il movimento reazionario di massa della Maidan che scosse Kiev giusto 4 anni fa e che condusse al rovesciamento del governo Yanukovich, raggiunse il suo apice il 20 e il 21 febbraio del 2014 quando negli scontri a fuoco tra i poliziotti della Berkut (la guardia scelta del governo) e i dimostranti, morirono oltre cento persone. […] Uno dei due georgiani, intervistato qualche giorno fa da due televisioni europee e ieri anche dalla agenzia di stampa moscovita Interfax, Alexander Revazishvili ricorda: ‘Giunse alla nostra tenda sulla Maidan Mamulashvili (uno stretto collaboratore di Michail Shakashivili, ex presidente della Georgia, n.d.r.) con un ucraino che si faceva chiamare Andrea, ma soprattutto con un americano che indossava la mimetica, un ex soldato dell’esercito, che si presentò con il nome di Cristopher Bryan’. Il misterioso Bryan venne presentato come ‘istruttore di contractors’. La circostanza è confermata dall’altro ‘contractor’ georgiano, Koba Nergadze, che incontrò separatamente Bryan ma questa volta alla presenza proprio di Shakashivili. Racconta Nergadze: ‘Era presente all’incontro anche l’attuale capo della sicurezza nazionale Sergey Pashinsky. Gli ordini venivano dati da Bryan e a noi tradotti in georgiano da Mamumashvili. Un gruppo di contractors diretto da Pashinsky, e composto da lituani, polacchi e georgiani avrebbe dovuto recarsi all’edificio del Conservatorio ma non avevamo idea per far cosa’. […] ‘La mattina presto – ricorda ancora Nergadze – verso le 8, ho sentito spari provenienti dal Conservatorio. Dopo tre o quattro minuti il gruppo di Mamulashvili ha anch’esso iniziato a sparare dall’hotel Ucraina. I due gruppi di cecchini spararono in modo incrociato sia sulla polizia sia suoi dimostranti cercando di provocare più morti possibili’. ‘Pashinsky mi ha aiutato a scegliere le posizioni di tiro. Verso le 7.30 del mattino (o forse più tardi) Pashinsky ordinò a tutti di prepararsi ad aprire il fuoco. Avremmo dovuto sparare 2 o 3 colpi e poi cambiare posizione in modo che i colpi sembrassero casuali. Abbiamo continuato per circa 10-15 minuti. Successivamente, ci è stato ordinato di abbandonare le armi e lasciare l’edificio’”.
Se cercate sul web notizie sulla strage, troverete le smentite del gruppo “Stopfake”, nel quale militano ucraini filogovernativi[2]. Troverete anche le analisi di Ivan Katchanovski, uno studioso dell’Università di Ottawa, in Canada, che ha pubblicato in open access molte ricostruzioni di quegli eventi, traducendo le testimonianze dei sopravvissuti che parlano chiaramente dei cecchini sui palazzi circostanti (https://uottawa.academia.edu/IvanKatchanovski). Oppure consiglio, per farsi un’idea, la lettura di Western Mainstream Media and the Ukraine Crisis: A Study in Conflict Propaganda di Oliver Boyd-Barrett, dell’americanissima Bowling Green University del Kentucky, uscito per la casa editrice inglese Routledge nel 2016. Leggiamo dall’introduzione: “Questo libro esplora la propaganda contemporanea e i media mainstream occidentali, con riferimento alla crisi ucraina. Esamina le narrazioni dei media occidentali sulle cause immediate della crisi, i rispettivi ruoli di coloro che hanno partecipato o altrimenti sostenuto le manifestazioni del 2013-2014 – comprese le ONG sorrette dagli Stati Uniti e le milizie di destra – e la legittimità, o meno, della destabilizzazione del governo democraticamente eletto Yanukovich. Valuta i resoconti del ruolo della Russia e degli ucraini di etnia russa in Crimea, Odessa e nel Donbass e traccia come i media mainstream occidentali hanno fatto di tutto per demonizzare Vladimir Putin”.
Ricordiamo che, in seguito a quella strage, il governo di Yanukovich, un governo eletto, venne costretto a fuggire dal paese dopo che milizie armate invasero il parlamento: tutto ciò che segue ha le sue origini in un atto di profonda illegalità; come mai per l’assalto assai meno cruento di Capitol Hill ci si indigna (giustamente, vorrei aggiungere), mentre questo golpe spalleggiato da USA e UE, compiuto da miliziani con in mente un paese “etnicamente” ucraino, lo consideriamo una prova di democrazia? Appelli alla ragionevolezza erano arrivati già nel 2014 da politici difficilmente sospettabili di essere favorevoli alla Russia come Henry Kissinger, il quale diceva che presupporre un ingresso di Kiev nell’Unione europea e nella NATO avrebbe inevitabilmente portato alla guerra, ed auspicando per l’Ucraina una situazione simile a quella della Finlandia, che collabora economicamente con l’Europa occidentale, però si mantiene neutrale. E invece, ecco spuntare proprio oggi, ancora una volta, Raphaël Glucksmann, il consigliere francese di Mikheil Saak’ashvili, il quale firma un appello insieme a un centinaio di altri politici e “intellettuali” francesi per chiedere il riconoscimento ufficiale dell’Ucraina come Stato candidato dell’Unione Europea. È abbastanza, credo, per provare a farsi un’idea indipendente, che vada al di là della narrazione a senso unico che sta passando sui media occidentali in questi giorni. Che gli ucraini siano in larga parte, come i georgiani prima di loro, delle vittime, non c’è dubbio. Ma di chi?

[1] Il riferimento è a Nayirah al-Ṣabaḥ, una ragazza kuwaitiana di quindici anni, che sosteneva di aver assistito all’uccisione di infanti da parte dei soldati iracheni in Kuwait, in una testimonianza al Congresso degli Stati Uniti, nel periodo precedente la guerra del Golfo del 1991. La sua deposizione, considerata credibile all’epoca, è stata poi considerata come propaganda di guerra. La società di pubbliche relazioni Hill & Knowlton, che era alle dipendenze dell’associazione Cittadini per un Kuwait libero, aveva organizzato la testimonianza.

[2] Chissà cosa ne pensano dell’invasione di video falsi o decontestualizzati (per esempio presi dal conflitto in Siria) che vengono mostrati come prova delle azioni russe in Ucraina, alcune delle quali provengono dallo stesso Ministero della difesa ucraino (fonte: https://www.bbc.co.uk/news/60528276). La più bella è stata presentata dai nostri telegiornali RAI: mostra il bombardamento di una città tratto dal videogioco War Thunder. Si vede il tipico skyline di Kiev con i suoi grattacieli illuminati dall’interno (nella foto in alto), evidentemente per aiutare i bombardieri a mirare meglio.

 

 

 

 

 

Minima Cardiniana 367/4

 

ZAR PUTIN E LA SCACCHIERA DEL MONDO

 


Secondo l’antica numerologia sacra, l’8 è il numero perfetto che nasconde i segreti dell’Infinito. Otto lati avevano i battisteri, sacri edifici della vita e della rinascita. Otto volte 8 fa 64: la Perfezione della Perfezione. Sessantaquattro sono le caselle della tavola degli scacchi, il “Gioco dei Re” sul quale fior di shah persiani, di basileis bizantini, di califfi di Baghdad e di sultani d’Istanbul hanno imparato le regole-base della politica: e della guerra, che – diceva von Clausewitz – è continuazione della politica con altri mezzi.
Il maresciallo Stalin, da buon georgiano-osseta, era a quel che si dice un giocatore eccellente. Vladimir Vladimirovich, zar Putin, è forse migliore di lui. Sarebbe interessante assistere a una sua partita con un altro abile giocatore, Erdoğan. Ma in fondo è quel che sta accadendo sotto i nostri occhi: perché la scacchiera è l’immagine del mondo, e gli scacchi sono il più elegante e geniale dei risiko.
Ricordate l’“Accordo di associazione” del 2014 tra l’Unione Europea e l’allora presidente ucraino Petro Poroshenko? In esso era previsto fra l’altro di “approfondire la cooperazione tra le parti nei campi della sicurezza e della difesa” e di “promuovere una graduale convergenza in materia di politica estera e sicurezza”. Come dire spostar l’Ucraina dall’area d’influenza russa e attrarla in quella europea: cioè occidentale e della NATO. L’Ucraina sarebbe fiorita di missili statunitensi di portata superiore ai 3000 chilometri e di relativi sistemi radar: Mosca sarebbe stata direttamente minacciata. Zar Putin intervenne, ci fu una breve guerra: poi gli “accordi di Minsk”, i quali ristabilirono un equilibrio che l’Ucraina di Zelensky ha cercato adesso di far saltare di nuovo. Se l’Ucraina fosse entrata nella NATO, addio appoggi navali russi sul Mar Nero, addio controllo dei corridoi energetici, addio distanza di sicurezza antimissile. Sarebbe stata accettabile per Mosca una situazione del genere, col pretesto del “diritto di ciascun popolo a scegliersi i propri alleati”?
Tutto ciò resta valido ancor oggi: e spiega il comportamento di Vladimir Vladimirovich il quale non è né un pazzo, né un nuovo Hitler. Putin è semplicemente lo statista che, con grande abilità politica e diplomatica, è riuscito a riportare la Russia dall’abisso della distruzione dell’Unione Sovietica al livello di qualcosa di più di una “potenza regionale”, in grado di far sentire la sua influenza dal Baltico alla Mitteleuropa al Vicino Oriente, mentre ha portato il suo paese ad affacciarsi finalmente sul Mediterraneo – l’antico sogno di Pietro il Grande, di Caterina II, di Stalin! – e i suoi sempre più stretti rapporti con la Cina del Progetto One Belt, One Road lo mettono in condizione di esercitare anche un potere di mediazione fra tutte le potenze mondiali di oggi.
Eppure gli manca qualcosa. Gli manca quello che negli Anni Sessanta era stato anche il sogno di De Gaulle e che poi fu il miraggio di Gorbaciov. Gli manca la possibilità di “giocare di sponda” con un’Europa davvero libera, indipendente, equidistante dai blocchi e in grado di badare sul serio all’interesse proprio e non altrui. Un’Europa che non abbia le mani legate dalla pastoia NATO che la obbliga nella sostanza ad obbedire a Washington.
Ma l’Europa preferisce l’unanimismo occidentale, opta per il blocco assieme agli Stati Uniti: non ha alcuna voglia di rischiare guerre di sorta – questo mai!, si ripete – ma si adatta alla politica del ricatto attraverso le sanzioni e lascia che sia quel portento di energia, di lungimiranza e di chiarezza d’idee che è il presidente Biden a dettarle l’agenda dei “buoni” e dei “cattivi”.
E, se invece di essere il capobanda di uno “stato-canaglia”, Putin fosse il migliore statista di tutto il macrocontinente eurasiatico?

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