Culpa, sua maxima culpa

Come dicevano i latini siamo al ‘redde rationem’, a rendere conto del ‘gioco’, che nel tempo ha esondato dalla dimensione ludica del calcio con il rischioso irrompere nel circuito aureo del business system. È un vago, sgradevole ricordo, per nulla condiviso, il tempo delle vacche grasse, di intraprendenti magnati, che al calcio affidavano prestigio personale e surplus di profitti. Il mondo del pallone, riflesso nello specchio, non può mentire e plasticamente dimostra che nulla su questa splendida e devastata Terra sfugge all’orrore della contrapposizione ricchezza-povertà, privilegi e marginalità. Dalle nostre parti, questa scomoda verità l’hanno interpretata magnati e nababbi, il petroliere Moratti, il monarca partenopeo Achille Lauro e su questa scia di ‘paperon dei paperoni’, gli Agnelli, il Berlusconi, da ultimo il re del cinema remunerativo De Laurentis, a rimorchio del fiorentino Vittorio Cecchi Gori. L’invasione senza barriere protettive del calcio italiano (ma inglese, spagnolo, francese, tedesco) di petrodollari e ricchezze smodate, ha eretto un insormontabile spartiacque: da una parte il calcio multimilionario, dall’altra le società ‘minori’. Se la Juventus può scavalcare senza danni vistosi la stagione della crisi mondiale, della pandemia e delle sue devastanti ricadute sull’economia che colpiscono duramente anche lo sport, non è difficile capire il perché. Ha le spalle coperte dalla Fiat, sua generosa matrigna dalla stagione d’oro dell’‘Avvocato’ al discusso nipote Andrea. Un’occhiata al Sud racconta che lo stress finanziario degli stadi disertati per il rischio contagi da Covid ha provocato gravi ferite anche a società solide qual è stato il Napoli di De Laurentiis e ha portato in superficie anche errori del. Quando il club azzurro è stato governato con i conti in regola e bilanci in attivo, il presidente ha scelto la strada della parsimonia, non ha profittato del vento in poppa per competere alla pari con le big italiane e portare a Napoli giocatori ‘da pallone d’oro’. Ora, in fase di timida uscita dall’austerity, il Napoli non solo stenta a confrontarsi con la Juventus, con le squadre milanesi. Purtroppo deve fronteggiare l’emorragia dei suoi giocatori di maggior pregio. A capire tempestivamente l’aria che tira è stato non a caso Insigne, che fosse rimasto in azzurro avrebbe dovuto accettare tagli dei suoi compensi. Si sussurra che sarebbero intenzionati a lasciare Mertens, Fabian, perfino l’inamovibile Koulibaly ed è inutile la rabbia postuma per i guai dell’emergenza, ingiustificato il pianto del coccodrillo, il rammarico per il latte versato. Assolutamente ragionevole è la rabbia dei tifosi, fuori luogo il lamento della società per il default dei due o tremila spettatori del Maradona Stadio.

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