Procida 1926, il film su Graziella

Un’isola romanticamente selvaggia, dalla natura incontaminata come i costumi dei suoi abitanti, una piccola ma affascinante oasi di esotismo nel vicino Mediterraneo…

Era questa, da più di mezzo secolo, l’immagine di Procida per i (numerosi) lettori di Graziella, il romanzo autobiografico di Alphonse de Lamartine pubblicato nel 1852: una delle più vive suggestioni letterarie, di quelle che in Francia, dal Grand Tour ai giorni nostri, veicolano importanti flussi turistici sulle rotte della cultura e dell’arte.

Immaginatevi perciò quale reazione, quante intense emozioni deve aver suscitato nel pubblico transalpino la visione di una Graziella in carne e ossa, con i grandi occhi neri e il sorriso solare esaltati dai primi piani sul grande schermo, dove la fanciulla di Procida immortalata da Lamartine, agghindata nel costume tradizionale dell’isola, si muoveva e ballava con una grazia ad un tempo giovane e antica. Miracoli del cinema, che nel 1926 consentì di trasporre in immagini in movimento il romanzo di Graziella.

L’intraprendente produttore Marcel Vandal, che per l’occasione esordì alla regia, si attenne con fedeltà alla storia d’amore, dolce ma infine tragica, tra la graziosa nipote di un pescatore dell’isola e il giovane scrittore francese Alphonse, a partire dal titolo e dalla location. Non era il primo film ispirato al romanzo (già nel 1912 il francese Léonce Perret aveva diretto Graziella la gitane, e cinque anni dopo è annoverata una Graziella del napoletano Mario Gargiulo) e non sarà l’ultimo – a indossare i panni di Graziella saranno Maria Fiore, nel film del 1955 di Giorgio Bianchi, e Ilaria Occhini nello sceneggiato Rai del 1961 – ma la pellicola del 1926, prodotta dalla Film d’Art, resta la più fedele allo spirito del testo letterario e contribuì a svelare al pubblico internazionale le meraviglie di Procida, esaltate dalla fotografia sontuosa di René Moreau e documentate con dovizia anche nei reportage delle riviste specializzate: “Qui i paesaggi ammirevoli abbondano – si legge nel 1926 in una didascalia del periodico “Mon Cinè” – ma purtroppo nessuna immagine è in grado di riprodurne compiutamente la bellezza e i colori: il blu intenso del mare, la patina delle pietre antiche, il verde della vegetazione lussureggiante e il rosso intenso della terra e delle rocce”.

Girato nell’estate del 1925 tra Procida, Napoli e Capri, Graziella ottenne una lusinghiera accoglienza in Francia (dove fu edito anche un cineromanzo di successo, che sarà riproposto in un prossimo volume di “CinemaSud”) e due anni dopo, con il titolo La canzone del mare, anche in Italia, come attestano le recensioni su “Cine Gazzettino” e “La Domenica del Cinema” nel giugno del 1928.

Per il ruolo di Graziella la scelta cadde su una 27enne attrice britannica di origine russa, col nome d’arte di Nina Vanna, molto popolare negli anni Venti, che con la sua figura minuta e la vivace mimica riuscì a dare alla fanciulla di Procida una sorprendente verosimiglianza fisica e temperamentale. Molto più agevole risultò il compito di Jean Dehelly: il suo Alphonse, biondo e sognante, si limita a riprodurre il clichè del giovane scrittore romantico. Ma la vera sorpresa del film è la presenza di Antonin Artaud, tanto significativa quanto (ancora) incredibilmente ignorata. Il futuro inventore del “teatro della crudeltà”, oggi universalmente considerato uno degli autori e teorici della scena drammatica più innovativi del Novecento, all’epoca non ancora trentenne, indossa nel film i panni di Cecco, il cugino e aspirante marito della protagonista, che per amore di lei finisce per rinunciare ai suoi progetti matrimoniali quando scopre che Graziella ama Alphonse. Un ruolo importante, interpretato con una sensibilità artistica che impressionò pubblico e critica, confermata l’anno successivo nel ruolo di Marat in Napoleon, capolavoro di Abel Gance e del cinema muto francese.

Un’altra straordinaria storia da riscoprire nell’anno di Procida capitale della cultura. Confidando in un programma di iniziative di alto profilo, senza replicare quello andato in scena due anni fa a Matera: tutto immagine-banalità-clientelismo, bypassando le realtà locali più dinamiche e libere.

 

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