Va giù il sipario sull’arte?

The end dell’Arte, abbiamo inteso queste quattro lettere esaustive per la rappresentazione millenaria della creatività? È certamente tesi temeraria, lo spiccare un salto nel vuoto ad occhi bendati, un’incursione spregiudicata, piena di incognite, audace, azzardata nell’immenso capitolo dell’umanità che ha generato Bach e Leonardo, Dante, la precoce genialità di Mozart, la superiore intelligenza di Einstein e i loro innumerevole cloni. C’è tutto questo nel nelle prime due righe di questa nota e nell’estrema concisione della domanda: “Ma l’arte, considerato l’immenso patrimonio, che satura gli archivi storici della musica, della pittura, della letteratura, ha forse concluso il suo ininterrotto percorso, ha esaurito la possibilità di proseguire nello straordinario incedere nell’ innovazione, che ha connotato i secoli, uno dopo l’altro? Non ha più strumenti e interpreti che assecondino in tutte le forme d’arte l’era delle tecnologie applicate, la loro inevitabile globalizzazione? Sarebbe efficace, ma sbrigativo, elencare lo status in apparenza senza futuro della musica classica dopo l’avvento delle composizioni atonali di Stockhausen, i casi estremi che hanno ipnotizzato  fruitori disattrezzati e offerto nuova linfa ai critici d’arte, ad esempio i   ‘tagli obliqui nella tela rossa’ di…, l’exploit remunerato con cifre sbalorditive della ‘merda d’artista in scatola’ e di recente la banana inchiodata al muro di …, acquistata da un facoltoso ‘ammiratore’ a suon di dollari. Forse è la letteratura a rintagliarsi ancora qualche spazio agibile, ma l’attesa di un Proust del tremila, è frutto di ragionevole ottimismo, può immaginare che si traduca in realtà con buone probabilità? In ogni caso, un novello vate della scrittura, sarebbe compatibile con la rivoluzione culturale che racconta tutto con il linguaggio della televisione e degli smartphone? È verosimile che le generazioni a venire rinneghino il vezzo surreale, sbrigativo, negazionista del parlare forbito o solo normale, di cliccare sul segno della ‘X’ delle tastiere con cui sostituiscono la preposizione ‘per’, che abbandonino il rap e compongano capolavori come i ‘Concerti Brandeburghesi’, in forma rivisitata, che ripartano dai percorsi geniali di Giotto, di Picasso: e per dipingere cosa, come?

Non c’è che arrendersi all’abile dialettica dei critici, che spiegano le meraviglie estetiche di un quadrato nero, dipinto in terra, capace di simulare il vuoto, di ‘vasi da notte’ in immaginifica sequenza, corredati di rotoli di  carta igienica o, per oltrepassare questi paradossi, l’opera creativa, tesa a stupire (o lasciare sbigottiti), del bulgaro occidentalizzato Christo Javasev e di sua moglie Jeanna-Claude Denat de Guillebon, inventori di monumenti ed altro imballati in grandi teli, fino a diventare oggetti di imballaggio, catalogate come ‘installazioni’, costate a chi le ha commissionate cifre impressionanti, interventi effimeri su edifici o interi paesaggi interi. Tra i ‘capolavori’ di Christo il Running Fence, opera realizzata in 4 anni, una recinzione da Est a Ovest di quaranta chilometri (!) nella campagna californiana, a nord di San Francisco: ovvero una serie di teloni di nylon appesi a un cavo d’acciaio sorretto da oltre duemila montanti metallici. Valutare il costo è un dato ignoto. Meglio così. L’opera è ancora lì? Assolutamente no. È durata giorni quattordici, non uno di più. Da citare per capire di che si parla, è ‘The Floating Piers’ (2016),  una passerella di 4,5 km (!) con cui il genio di Christo coprì le acque del Lago d’Iseo.

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