AFRICA BOLLENTE / REPORTAGE SU CONGO, SUDAFRICA E MALI

Di seguito pubblichiamo tre reportage sulle situazioni nella Repubblica democratica del Congo, nel Sudafrica e nel Mali.

Le prime due sono firmate da ‘Nigrizia’, il sito che si prodiga da anni per scrivere la vera storia del continente africano, al di là di fake news o folklore. La terza da Antonio Mazzeo, che con il suo blog tiene viva l’attenzione sui business militari italiani all’estero, spesso e volentieri in direzione Africa.

 

 

Rd Congo: nell’est Tshisekedi gioca la carta militare

Per ripristinare la sicurezza il nuovo governo invia l’esercito nelle due regioni orientali, mentre sale la protesta della popolazione e non si arrestano i crimini. Lo shock dell’uccisione di un imam a Beni durante la preghiera

DI Oka Kibel Bel – direttore della testata Les Coulisses 

 

Per dare risposte concrete alle pressanti richieste di protezione da parte della popolazione e della società civile nell’est del paese, il presidente Tshisekedi ha spinto il nuovo governo dell’“Union sacrée” a militarizzare le zone più colpite.

Comincia oggi lo stato d’emergenza nelle regioni dell’Ituri e del Nord Kivu, teatro da anni di continue incursioni armate da parte di sedicenti gruppi di ribelli che lavorano per conto terzi (Rwanda e Uganda su tutti al soldo di potenze occidentali) nel controllo di terre e minerali.

I militari delle Fardc prendono le redini delle istituzioni e della giustizia locali, ma se fa subito scalpore la notizia che i due nuovi governatori delle regioni in questione sono a loro volta ex ribelli, coinvolti in azioni non certo diplomatiche e trasparenti nel passato.

In particolare, in Ituri il nuovo governatore, il generale Constant Ndima, è stato in passato un uomo del leader politico ed ex vicepresidente Jean Pierre Bemba, ed è accusato di massacri contro le popolazioni nande e contro i pigmei. Niente di nuovo, se consideriamo le connivenze sempre presenti tra milizie, bande armate e militari che aumentano la complessità di attori in campo in un territorio dove più c’è caos e meglio si ruba.

Questa impronta militare – operazione prevista per un mese e rinnovabile poi ogni 15 giorni – concede poteri speciali all’esercito per mettere fine ai massacri, come promesso dal nuovo premier Jean-Michel Sama Lukonde e come richiesto ieri in commissione affari esteri dell’Assemblea nazionale francese dal dottor Denis Mukwege che invoca l’operatività delle azioni giudiziarie raccomandate dal rapporto Mapping delle Nazioni Unite (contro i crimini all’est compiuti tra il 1993 e il 2003) e un tribunale speciale internazionale per la Rd Congo.

Se la missione Onu, contestatissima nell’est, non riesce a dare una svolta a quel caos con il contingente di caschi blu della Monusco (17.500 uomini per un’operazione che costa 1 miliardo di dollari l’anno), ora ci prova l’esercito congolese.

Il mese di aprile ha visto infatti molti disordini che hanno portato anche ad atti di violenza. Oltre alle manifestazioni della popolazione che chiede la partenza della Monusco, la città di Beni, capoluogo della regione del Nord Kivu, ha vissuto delle proteste insolite: diversi studenti hanno occupato per giorni la spianata del municipio, dormendo sotto le stelle.

Hanno chiesto la presenza del capo dello Stato, Félix Tshisekedi, al quale hanno voluto esprimere la loro collera per l’insicurezza che è diventata ricorrente in questo contesto e che impedisce agli studenti di frequentare la scuola come ovunque nel mondo. Dopo una settimana di sit-in, la polizia nazionale congolese ha disperso gli studenti con un uso sproporzionato della forza.

Ciò ha provocato degli scontri: uno di loro è morto e altri cinque, feriti, sono stati curati presso l’ospedale di riferimento generale di Beni. Ad oggi, il sit-in è stato revocato e gli studenti hanno ripreso timidamente il loro viaggio verso la scuola. Come se non bastasse a incendiare il clima, venerdì 30 aprile, due uomini in moto hanno sparato a bruciapelo a un soldato musulmano delle Fardc.

Ma l’avvenimento che ha scosso ancora di più la popolazione di Beni e che va a toccare le corde più sensibili delle convinzioni e appartenenze religiose in campo, è stato quello di sabato 1° maggio, quando il rappresentante regionale della Comunità islamica del Congo (Comico), lo sceicco Ali Amin Ousman, è stato colpito più volte mentre guidava la preghiera serale (al-icha) alla moschea Al-Jammiya / Mupanda di Beni.

Secondo informazioni attendibili, l’imam era stato preso di mira dalle Adf, Forze alleate democratiche, gruppo ribelle tacciato dal dipartimento di Stato americano come gruppo terroristico, considerato un alleato dello Stato islamico che aveva pronunciato una “fatwa” (pronunciamento giuridico islamico) contro di lui per non aver predicato il jihad armato nella moschea e per i suoi rapporti con i non credenti.

A partire dal 21 aprile, Ousman aveva ricevuto messaggi di morte che gli chiedevano di scegliere tra il “vivere con i non credenti, e quindi essere fatto fuori, oppure predicare il Corano e la Sunnah (tradizione scritta) del Profeta per rimanere nella Ummah (comunità) dei credenti”.

L’assassinio dello sceicco Ousman il 1° maggio, nel mezzo del mese sacro del Ramadan e nella moschea è un forte segnale che il gruppo Adf sta inviando ad altri musulmani schierati dalla parte della gente, assieme ad altri attori locali, nel denunciare le continue esazioni contro i civili. Questo atto barbaro fa precipitare l’intera città di Beni nella paura ed è arrivato pochi giorni dopo l’annuncio dell’imposizione dello stato di emergenza.

Ora le forze vive delle regioni sotto tiro, dalle Chiese alle ong, dalle organizzazioni internazionali ai movimenti della società civile, sono invitate a fare fronte comune nonviolento contro questi ennesimi crimini, al fianco delle espressioni più autentiche delle comunità musulmane, per cercare di ristabilire il ritorno alla vita normale per popolazioni stremate e private, ormai da anni, del diritto alla vita.

 

 

 

 


Sudafrica: scontro ai vertici dell’African national congress

L’inchiesta in corso sulla corruzione nei nove anni di governo dell’ex presidente Jacob Zuma sta portando alla luce un sistema di “mazzette” consolidato all’interno del partito al potere. Una rivelazione che divide l’Anc tra chi sostiene l’attuale presidente e chi rimane fedele al suo predecessore

DI Efrem Tresoldi 

 

È ormai scontro frontale tra il presidente del Sudafrica Cyril Ramaphosa e il segretario generale del suo partito, l’African national congress (Anc), Ace Magashule che il 5 maggio scorso è stato sospeso dal suo incarico. Indagato per corruzione, frode e riciclaggio, Magashule, potente uomo del partito al potere e alleato dell’ex presidente Jacob Zuma (indagato pure lui per corruzione e appropriazione indebita), ha reagito con una lettera indirizzata allo stesso Ramaphosa in cui giunge a sospenderlo dall’incarico di presidente dell’Anc.

Nella lettera Magashule dichiara che farà ricorso contro la decisione di sospensione, da lui ritenuta “incostituzionale”, e che continuerà a restare in carica fino a quando il suo caso non sarà esaminato dall’autorità competente e sarà emessa la sentenza finale.

Jessie Duarte, vice segretaria generale del partito, ha ribattuto affermando che Magashule non ha l’autorità di sospendere il presidente dell’Anc e che per farlo avrebbe dovuto avere il sostegno del partito.

L’ex segretario dell’Anc, rinviato a giudizio con l’accusa di appropriazione indebita di fondi pubblici mentre era premier della regione (provincia) del Free State, è stato sospeso dopo aver rifiutato l’ultimatum da parte del National working committee (il comitato esecutivo ristretto del partito) che gli aveva dato 30 giorni per dimettersi a partire dal 30 marzo scorso.

Il provvedimento di sospensione che ha colpito Magashule si basa sulle nuove linee guida del codice di condotta, adottate il febbraio scorso dall’Anc, e riguarda anche membri del partito che, indagati per corruzione, si rifiutano di dimettersi dai loro incarichi.

Più che di casi di singoli funzionari corrotti, appare evidente che la corruzione sia una realtà sistemica all’interno del partito al potere. Come è apparso chiaramente nella recente testimonianza di Lucky Montana, ex amministratore delegato del Trasporto ferroviario passeggeri (Prasa) davanti alla Commissione di inchiesta Zondo che sta facendo luce sulla corruzione al tempo della presidenza Zuma, il cosiddetto caso del “sequestro di stato” (State capture).

Montana ha dichiarato che per ogni appalto i dirigenti dell’Anc pretendevano da lui “un aiuto” per il partito. Così, ad esempio, la Swifambo Rails, l’impresa che aveva ottenuto l’appalto di circa 200 milioni di euro per la costruzione di 88 locomotive, avrebbe donato all’Anc l’equivalente di 5 milioni di euro. Poco importa poi, se alla fine Prasa ha pagato a Swifambo Rails una cifra inferiore ai 200 milioni pattuiti e invece di 88 sono state consegnate solo 13 locomotive, per giunta risultate troppo alte per le infrastrutture locali.

Comunque sia, lo scontro tra Magashule e Ramaphosa è visto come il test più significativo per verificare se il partito di Nelson Mandela è seriamente intenzionato a porre fine ad anni di corruzione all’interno del governo.

Lo stesso Ramaphosa ha promesso di combattere la corruzione e promuovere il buon governo, descrivendo il tempo in carica del suo predecessore Jacob Zuma come «nove anni buttati via».

Intanto il National executive committee (Nec) dell’Anc – organo decisionale composto da 100 membri del partito –, si riunirà in questo fine settimana per considerare il caso Magashule. Ed è quasi certo che lo inviterà a rispettare la decisione presa dallo stesso Nec e a sottomettersi alle norme disciplinari del partito.

 

 

 

 

ITALIA IN MALI. ASSIEME AI GOLPISTI PER FERMARE I FLUSSI MIGRATORI E “STABILIZZARE” IL SAHEL

DI ANTONIO MAZZEO

Per il governo Draghi il Mali è un “partner strategico per la gestione dei flussi migratori e la stabilità del Sahel” ma ancora oggi l’Italia non ha una propria ambasciata nella capitale dello stato africano. In verità è da anni che la Farnesina annuncia l’istituzione di un ufficio diplomatico a Bamako e il 21 ottobre 2020 era stato pubblicato un decreto che ne formalizzava l’apertura in meno di quaranta giorni. L’8 e il 9 aprile scorso il ministro degli esteri Luigi Di Maio si è recato in visita ufficiale in Mali e ha assicurato le autorità locali che presto sarà nominato il primo ambasciatore italiano. Poco conta a Roma che il “nuovo” governo maliano di transizione civile-militare è stato nominato un mese dopo il colpo di stato effettuato il 18 agosto 2020 da un gruppo di militari guidato dal colonnello Assimi Goita. Quel giorno i rivoltosi avevano arrestato il presidente Ibrahim Boubacar Keïta e sciolto il governo e il Parlamento; successivamente avevano insediato una giunta d’emergenza. L’odierno presidente è Bah Ndaw, ex capo di Stato maggiore dell’Aeronautica militare ed ex ministro della difesa; vicepresidente il capo dei militari golpisti, Assimi Goita. Secondo i vertici maliani per l’indizione di nuove “libere elezioni” bisognerà attendere perlomeno ancora un anno.

Nell’attesa l’Italia manterrà tutti gli impegni assunti con i cugini francesi e con le deposte autorità del Mali, a partire dall’invio di un nutrito contingente militare nella regione del Sahel in nome della “lotta globale al terrorismo jihadista”. La partecipazione italiana alla task force Takuba in Mali è stata decisa e finanziata dal Parlamento il 16 luglio 2020 ma ha preso il via semi-segretamente solo nei primi giorni di marzo. Top secret le attività militari e le regole d’ingaggio autorizzate.

Le uniche informazioni ufficiali sono quelle contenute nella scheda predisposta dal Servizio Studi del Dipartimento Difesa alla vigilia del voto parlamentare. (1) “La missione denominata Task Force Takuba è una forza multinazionale interforze con il mandato di addestrare e assistere le forze saheliane nella lotta contro i gruppi armati jihadisti, e risponde, altresì, all’esigenza di tutela degli interessi nazionali in un’area strategica considerata prioritaria”, riporta il documento del Servizio Studi Difesa. “Essa si inserisce nel nuovo quadro politico, strategico e operativo ribattezzato Coalizione per il Sahel, che riunisce sotto comando congiunto la forza dell’Opération Barkhane a guida francese e la Force Conjointe du G5 Sahel, al fine di coordinare meglio la loro azione concentrando gli sforzi militari nelle tre aree di confine (Mali, Burkina Faso e Niger)”. Per la cronaca, con questi due ultimi paesi africani l’Italia ha sottoscritto recentemente importanti accordi in materia di cooperazione militare: con il Niger nel 2017, con il Burkina Faso nel 2019. (2)

Sempre secondo il Servizio Studi del Dipartimento Difesa, il contingente italiano assegnato alla Task Force Takuba fornirà attività di consulenza, assistenza, addestramento e mentorship a supporto delle forze armate e delle forze speciali locali “per il contrasto alle minacce per la sicurezza derivanti da fenomeni di natura terroristica transnazionale e/o criminale”. Entro la fine del 2021 saranno schierati in Mali duecento soldati, venti mezzi terrestri e otto elicotteri. Null’altro è specificato relativamente ai reparti e ai sistemi d’arma che saranno impiegati e sulla loro destinazione operativa finale.

Secondo l’Agenzia Nova le prime unità italiane giunte in Mali si sarebbero stanziate inizialmente nell’area di Menaka, non lontano dal confine con il Niger, dove è presente una base avanzata temporanea delle forze armate francesi. “L’hub logistico dovrebbe tuttavia restare a Niamey, già base della Missione bilaterale di sostegno alla Repubblica del Niger (Misin), dove sarà costituito probabilmente un comando di area con un comandante che avrà alle sue dipendenze il personale della task force”, ha riportato l’agenzia stampa. (3) Per il giornalista Andrea de Georgio (Internazionale), quando il contingente italiano sarà completo, opererà prioritariamente nella base di Ansongo, località del nord vicino al Burkina Faso, “con raggio d’azione il feudo jihadista del Liptako-Gourma, la cosiddetta zona delle tre frontiere a cavallo fra Mali, Niger e Burkina, dove regnano gruppi legati ad Al Qaeda e allo Stato Islamico”. (4)

E’ il sito specializzato Difesaonline a rivelare l’identità dei reparti d’élite che le forze armate italiane intendono inviare nel pericolosissimo scacchiere sub-sahariano. Tra essi spiccherebbero gli uomini del 9° Reggimento d’assalto Col Moschin, del Gruppo Operativo Incursori del Comsubin della Marina Militare, del 17° Stormo Incursori dell’Aeronautica e del Gruppo Intervento Speciale (GIS) dell’Arma dei Carabinieri, oltre agli elicotteristi del 5° e 7° reggimento dell’Aviazione dell’Esercito assegnati alla Brigata Aeromobile Friuli. Più che probabile pure l’impiego del Reggimento Carabinieri Paracadutisti “Tuscania” e di assetti di volo forniti dal 3° Reggimento Operazioni Speciali dell’Esercito di Viterbo, dal 1° gruppo elicotteri della Marina Militare di Sarzana-Luni e dal 9° Stormo dell’Aeronautica (Grazzanise-Caserta). (5) I veicoli terrestri dovrebbero comprendere i blindati multiruolo leggeri VTLM Lince prodotti da Iveco Defence di Bolzano e i fuoristrada Flyer 4×4. La componente aerea dovrebbe includere invece gli elicotteri NH-90 in funzione di evacuazione medica e assalto dall’aria e A-129D “Mangusta” per il combattimento aria-terra.

“Data la presenza di simili mezzi, è plausibile che l’azione italiana fra Mali e Burkina non sarà di solo addestramento o consulenza”, ha commentato Mirko Molteni di Analisi Difesa. (6) Il tutto con l’aggravante che la nuova impresa militare italiana in terra d’Africa prende il via quando è in atto una delle fasi più cruente e sanguinose del conflitto “anti-terrorista” nel Sahel, al seguito degli interessi economici e strategici di Parigi (risorse petrolifere ma soprattutto l’uranio per le centrali nucleari d’oltralpe) e per giunta sotto il comando delle forze armate francesi macchiatisi di gravi eccidi. Secondo i dati contenuti in un recente rapporto redatto dalle parlamentari francesi Sereine Mauborgne (LREM) e Nathalie Serre (Les Républicains), nel 2020 solo nella regione delle frontiere tra Mali, Niger e Burkina Faso, l’esercito ha ucciso 859 presunti appartenenti alle forze jihadiste mentre ne ha ferito o catturato altri 169. (7)

Lanciata ufficialmente dal presidente francese Emmanuel Macron nel gennaio del 2020 in occasione del vertice G5 Sahel di Pau, la Task Force Takuba (Spadain lingua tuareg), oltre a Francia e Italia vede la presenza militare di Belgio, Danimarca, Estonia, Germania, Grecia, Norvegia, Paesi Bassi, Portogallo, Regno Unito, Repubblica Ceca, Spagna e Svezia. Tutti i reparti operano sotto il comando dell’Opération Barkhane avviata dalla Francia nel 2014 per rafforzare la propria presenza nell’Africa sub-sahariana e supportare dal punto di vista addestrativo, operativo e logistico le forze armate dei paesi alleati (Burkina Faso, Ciad, Mali, Mauritania, Niger) nel “contrasto del terrorismo, delle attività criminali transfrontaliere e dei traffici di esseri umani”. Attualmente il Sahel i francesi schierano 5.100 militari, 3 droni, 7 cacciabombardieri, 22 elicotteri, 10 aerei di trasporto, 290 blindati pesanti, 240 blindati leggeri e 380 mezzi logistici. Una presenza bellica che non ha eguali nella storia post-coloniale della potenza europea.

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