Domenico Rea e il “Laceno d’Oro”

 – Un ricordo dello scrittore nel centenario della nascita –

 

Ora, scoprire che in una piaga appenninica dell’Italia – nella severa Avellino – si assegnano dei premi a nome del «neorealismo», oltre che coraggioso, mi sembra quasi donchisciottescamente eroico. Quando poi, a tener su con mille fatiche un’i­stituzione del genere, sono due uomini come Camillo Marino e Giacomo d’Onofrio, che hanno sempre e soltanto dato senza mai ricevere, si prova una sincera emo­zione. E per loro due noi ogni anno torniamo ad Avellino“.

Con queste parole Domenico Rea concludeva una memorabile conferenza al Liceo “Colletta” di Avellino, dove era stato invitato insieme a Vincenzo Siniscalchi il 21 ottobre del ’66.

Da quell’anno – e fino al ’70 – lo scrittore napoletano sarà il nuovo presidente del “Laceno d’oro”, il Festival internazionale del cinema neorealistico promosso dal ’59 dalla rivista “Cinema Sud” di Marino e d’Onofrio, con l’autorevole sostegno intellettuale e organizzativo di Pier Paolo Pasolini, sull’altopiano del Laceno a Bagnoli Irpino e poi, proprio dal ’66, ad Avellino e Atripalda, fino al 1988.

Un’”investitura”, quella di Rea, avvenuta in circostanze a dir poco inusuali, come confida quattro anni dopo lo stesso autore di Gesù, fate luce e Spaccanapoli in una cena con gli ospiti del festival: “Rea, questo volpone per il cinquanta per cento scrittore e per l’altro attore – si legge in un reportage di Corrado Carli, inviato del quotidiano “Il Lavoro” di Genova – perché napoletano al cento per cento, incominciò a narrare, soprattutto per Baldelli, che era l’unico a non conoscere Marino, la prima volta che si conobbero nel settembre del 1964 a Sorrento per la prima mondiale di Per un pugno di dollari. Camillo era con d’Onofrio (era come lo è da dodici anni, un’amicizia che dire fraterna è ben poca cosa): la coppia iniziò a girare con passo sostenuto attorno allo scrittore per lungo tempo fissandolo negli occhi: dopo parecchio Rea, incuriosito, abbozzò un saluto; i due gli si gettarono addosso, lo adorarono, gli proposero la direzione della rassegna del Laceno. Domenico capì subito di trovarsi di fronte a qualcosa di eccezionale, di insolito, a forze scatenate della natura e come quelle ingenue e intrepide; tra sé disse: “Non mi separerò mai più da questi uomini”. Ancora oggi Rea per averli a cena a Napoli viene ad Avellino a prenderli, li porta a Napoli, li riconduce ad Avellino e ritorna a casa ormai all’alba”.

 

 

Due foto storiche: qui, Domenico Rea con i fratelli Taviani. Sopra, con Camillo Marino

 

La presidenza quinquennale di Rea coincide con l’età d’oro del Festival irpino, in una felice simbiosi di entusiasmo ed impegno, di “dolce vita” provinciale – con le soireè e le serate danzanti a Mercogliano e Solofra –  e di fermenti sessantottini.

Toccò a Rea, nel ’66, consegnare il primo premio a Ingrid Thulin, la grande attrice svedese prediletta da Bergman, l’anno successivo ai fratelli Taviani per I sovversivi e a Luigi Zampa, nel ’69 a Ettore Scola (primo riconoscimento da regista con Il commissario Pepe), nel ’70 al Tinto Brass impegnato di Drop out e ai protagonisti del film Franco Nero e Gigi Proietti, al giovane e coraggioso (e all’epoca di sinistra) Pasquale Squitieri di Io e Dio.

Furono gli anni del disgelo verso il cinema dell’Est europeo, dei dibattiti dopo le proiezioni, della “scoperta” di tanti attori e registi di opere prime e di documentari, come Bernagozzi, Piavoli, Giannarelli.

Un festival giovane, coraggioso e conosciuto in tutto il mondo fu quello che Rea riconsegnò al duo Marino-d’Onofrio e al suo prestigioso successore: Cesare Zavattini.

 

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