Pepe Escobar – Maradona: il fragile dio del sud del mondo

66 anni, Pepe Escobar è un giornalista brasiliano, editorialista di Asia Times, autorevole agenzia di stampa londinese.
E’ autore di molti reportage dai sud del mondo.

tratto da Asia Times
La sua vita è stata un’opera pop planetaria. Dalla Somalia al Bangladesh, tutti conoscono i contorni di base della sua storia: il pibe di Villa Fiorito, un sobborgo povero di Buenos Aires (“Io sono un abitante dei bassifondi”), che ha elevato il calcio allo status di pura arte.

Essere il re del campo è una cosa. Giocare senza sosta sul campo globale è un gioco completamente diverso da quello del pallone. Moltitudini istintivamente capirono di cosa si trattava, come se stesse emettendo sempre un ronzio magico a una frequenza più alta, oltre l’Impero dei Sensi.

 

Gli italiani, che sanno una o due cose sul genio estetico, lo paragonerebbero a Caravaggio: una divinità pagana selvaggia, umana – fin troppo umana – che dimora nella luce e nelle ombre: il balletto vertiginoso di tutti i demoni interiori che esplodono, scandali familiari, divorzi, fiumi di alcol, doping, evasione delle forze dell’ordine, Himalaya di polvere marcia colombiana, innumerevoli accenni di morte in mezzo a gioia perpetua.

 

Ha personificato il crossover non-stop di Olympian Heights con The Harder They Fall: una festa che cammina – dribbling – contraddizioni selvagge, al di là del bene e del male. Da prendere in prestito, lateralmente, da T.S. Eliot, era come un fiume, “’a strong brown god’ – scontroso, selvaggio e intrattabile”.

 

Il defunto, grande Eduardo Galeano lo ha immaginato come una divinità pagana, proprio come uno di noi: “Arrogante, donnaiolo, debole… Siamo tutti così!”. El Pibe era l’ultimo dio sporco – “un peccatore, irresponsabile, presuntuoso, un ubriacone”. Non poteva “mai tornare alla moltitudine anonima da cui veniva”.

 

Può aver ipnotizzato il mondo con la maglia celeste dell’Argentina, ma il suo capolavoro, probabilmente, è rappresentato dal Napoli, la quintessenza del club della classe operaia italiana. Istintivamente, ancora una volta, si è schierato con i perdenti, i disprezzati, il banchetto dei mendicanti, e come un David nato ha ucciso i Golia del nord: Juventus, Milan, Inter.

 

 

Non ha mai smesso di vedersi come un ragazzo del ‘barrio’. E questo ha forgiato la sua politica: il suo istinto puntava sempre alla giustizia. È sempre stato dalla parte progressista della storia: un tatuaggio del Che sul braccio destro, un tatuaggio di Fidel sulla gamba sinistra.

 

El Comandante Fidel era come un padre adottivo. (Un’altra indicazione dal cielo: sono morti nella stessa data a quattro anni di distanza.) Ha abbracciato Hugo Chavez, Evo Morales e Lula. E si considerava “un palestinese”. Anti-imperialista fino al midollo.

 

Per giustizia poetica, la Mano di Dio doveva essere intrecciata, nella stessa partita, con il gol più spettacolare della storia. “Da che pianeta vieni?” gridò il leggendario narratore di origine uruguaiana in una stazione radio argentina. Lo stesso dio sporco in seguito ha riconosciuto che si trattava di un contropiede uno-due contro gli inglesi per le Falkland/Malvinas.

 

In “10.6 Seconds”, ambientato in quel fatidico 22 giugno 1986 all’Aztec Stadium in Messico, lo scrittore argentino Hernan Casciari si è impegnato in nientemeno che in un sorprendente aggiornamento di “El Aleph”, di quel Buddha in abito grigio Jorge Luis Borges. Ciò fissa la leggenda nella pietra – che riecheggia nell’eternità:

 

“Il giocatore sapeva di aver fatto quarantaquattro passi e dodici tocchi di palla, tutti con il piede sinistro. Sa che l’azione durerà 10,6 secondi. Quindi, pensa che sia giunto il momento di dire al mondo intero chi è, chi era e chi sarà fino alla fine dei tempi”.

 

Traduzione de L’Antidiplomatico

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