REFERENDUM – UNA DEMOCRAZIA CHE VUOLE GHIGLIOTTINARE SE STESSA

L’Italia mal rappresentata dai bisticci, incoerenze, contraddizioni e linee guida da gioco delle tre carte dei partiti, avrebbe il dovere primario di giustificare il perché governi di centro, destra, sinistra e misti cancellano uno dopo l’altro dall’agenda del che fare la ferita alla giustizia sociale di un sistema fiscale che premia i ricchi e gli evasori. La censura alla fuga dalla responsabilità di anteporre a ogni atto di governo la riforma fiscale è di speciale attualità nella fase iper caotica della disputa schizofrenica sul ‘sì’ o ‘no’ al taglio dei parlamentari, strategia molto simile a un paravento dietro cui nascondere l’omertà a trecentosessanta gradi che mantiene in vita l’indecenza della tassazione vessatoria delle buste paga e dei mancati ricavi dell’erario per l’impunità dell’evasione multimiliardaria.

 

L’invenzione del referendum, che tra non molto chiederà agli italiani di ghigliottinare il Parlamento o di tenerlo in vita così com’è, ha per intero il crisma del ‘diversivo’. Il test sull’identità dei tifosi apparentemente contrapposti del ‘sì’ e del ‘no’ rivela perciò aspetti sconcertanti. La consultazione è frutto di presunta furbizia del grillismo, convinto di trarre utili dal consenso dei populisti affascinati dallo ‘sfizio’ viscerale, ‘di pancia’, nel dare una lezione di antipolitica ai ‘fannulloni’ di Montecitorio e Palazzo Madama, rapaci artigliatori di lauti stipendi e privilegi a iosa. Sull’esito del 20 e 21 prossimi non scommettono neppure i professionisti del sondaggio e per dire dell’arduo cimento previsionale, quale sarà il peso delle clientele di deputati e senatori destinati all’eclissi se vincessero i ‘sì’? In generale, i partiti del ‘sì’ populista sono davvero disposti a dimagrire con la perdita di deputati e senatori? I più contigui all’obiettivo di una riforma elettorale non più rinviabile e chi ha rispetto per il parere preminente di illustri costituzionalisti, indicherà ai propri elettori il ‘no’ e in prospettiva la via maestra di un parlamento unicamerale, del Senato ‘laterale’ affidato ai rappresentanti delle istituzioni locali? Detto con il discutibile senno di un pronostico ‘a pelle’ è probabile che abbiano la meglio i tagliatori di teste, che il M5S tragga dal prevalere dei sì l’illusione di mascherare il disastro di errori macroscopici, della stridente incoerenza con l’ ‘ideologia’ di anti-partitocrazia, che nel 2016 ha catturato l’interesse degli italiani, alimentato dall’onda emotiva di ‘onestà, onestà’, dall’aria fresca del rinnovamento affidato a dilettanti della politica ispirati da giovanile spregiudicatezza. Alla manfrina populista di Di Maio, che prova a segare le gambe della sedia su cui si è sistemato Crimi in un momento di defaillance del ‘capo’, si è dovuto piegare Zingaretti e il cedimento all’alleato raddoppia le sue difficoltà a gestire al vertice i dem, insidiato da destra e da sinistra con sempre maggiore consistenza. La prima defaillance è di natura elettorale, accesa dal fuoco ‘amico’ del Movimento, che rifiuta sodalizi di lista e boicotta la competizione del Pd correndo in proprio, pur consapevole di non riuscire a far eleggere nemmeno un grillino nelle sette regioni in lizza.

 

Matteo Salvini

Per un momento immaginiamo che la spacconata dello spaccone Salvini non lo sia, che davvero il centrodestra esca dal campo delle elezioni con un sette a zero, partendo dai successi annunciati di Veneto, Liguria, Marche: in vista di sconfitte plurime, il patto di governo giallorosso ne uscirebbe con una ferita da pronto soccorso chirurgico e per suturarla le truppe sparpagliate di 5Stelle e Pd dovrebbero affidarsi alle cure di un luminare, sperando che si rimargino e non lascino tracce politicamente antiestetiche, per augurandosi che il vulnus non ghigliottini l’esecutivo guidato da Conte.

 

 

 

Di contro, l’anima di ex Dc che abita a iosa in Forza Italia, pur di non scomparire con l’inevitabile viale del tramonto del berlusconismo, si accontenta del ruolo di ruota di scorta del razzismo leghista e del neo fascismo di Fratelli d’Italia, partecipa al blocco elettorale compatto della destra. Il suo ‘nemico’, il Pd-M5S si appropinqua invece in ordine sparso al voto disgiunto, disarticolato, in alcuni punti perfino in contrapposizione. L’altalenante sodalizio diverge infatti sul taglio dei parlamentari e anche il ‘sì’ promesso ai 5Stelle è tutt’altro che solido, ignora le ragioni di autorevoli costituzionalisti, le voci convincenti di teste pensanti fuori dal coro delle posizioni strumentali che poco hanno in comune con la ragione. Inverosimile è la quasi esclusività dei ‘no’, cavalcata dalla destra e da sporadici indipendentisti della sinistra, o da realtà politiche ‘minori’, come + Europa. Ricadute più devastanti si annunciano con l’anomalia elettorale dei separati in casa, che rema contro la chance di conquistare il governo delle regioni su cui sarebbe auspicabile convergere anziché competere con liste parallele.

 

Matteo Renzi

C’è altro nel cielo nebuloso di Pd e M5S: la compattezza dei grillini è svanita da tempo, frantumata dalle correnti e dall’ambiguità di partenza di molti grullini, a suo tempo suggestionati dagli spot su onestà e antipolitica democratica, ma via, via, indotti dalla delusione a indossare altre casacche. A sinistra, fosse possibile chiamare ancora così il miscuglio di anime superstiti, il mosaico di tessere spurie (Leu, Fratoianni e compagni, dissidenti, delusi, moderati in rivincita), ne ha perse un paio e non ha caso. Renzi e Calenda hanno radici mascherate, nemmeno troppo, nell’alveo dell’ex scudo crociato e operano con il massino dell’ambiguità per sbiadire quanto di rosso sopravvive del Pd. Di qui il colpo di maglio alla governabilità Di Maio-Zingaretti, tranne qualche estemporaneo consenso in cambio di poltrone ministeriali o ambite nel pianeta del potere economico. Di qui l’assurdo garbuglio del Mes, di risorse europee che i dem, in sintonia con Forza Italia intascherebbero di corsa per destinarle all’emergenza sanitaria e che i 5Stelle respingono al mittente in accordo con la destra.

 

In Campania, in Puglia, in Toscana, come avvenne a suo tempo in Emilia, a competere per il governo delle rispettive regioni non è il partito democratico, ma personaggi di area capaci di coagulare consensi a prescindere dal Nazareno. Da queste anomalie e dal ‘pasticciaccio brutto’ del sì-no al ridimensionamento di Camera e Senato, si prospetta il pericolo di mine vaganti piazzate alle fondamenta del governo giallorosso.

 

Carlo Calenda

Tornando al sì-no, è da antologia del non sense politico la raffigurazione delle posizioni antitetiche che coabitano nel Pd. E sembra di assistere a restyling di in che racconta le vicende dei tornei medievali, di cavalieri l’un contro l’altro armati che si battono lancia in resta, in palio la leadership del dopo Zingaretti, pretendenti il vice segretario Andrea Orlando, il governatore emiliano Bonaccini, il sindaco di Firenze Nardella e spettatori per nulla coinvolti Cuperlo, Matteo Orfini, Luigi Zanda. Giorgio Gori, sindaco di Bergamo. Il segretario del prima ‘no’, poi ‘sì’, motiva la scelta agli occhi del partito senza condividere la fragile tesi del risparmio, cavallo di battaglia di Di Maio e prova a convincere i riluttanti del partito che non concede ai 5Stelle il merito di una riforma voluta dai dem, ma fatica a far digerire la separazione non consensuale con i pentastellati in cinque o sei delle sette regioni che rinnovano il governo: la competizione in famiglia  delle liste molto somiglia a un mezzo suicidio, che la destra gradisce per l’ipotesi di un suo en plein elettorale.

 

 

Ma sogniamo o siamo desti? Dal cappello a cilindro del prestigiatore spunta la sagoma (proprio così, la ‘sagoma’) del vacanziere di lusso a sbafo, cioè a carico di suoi beneficiati e negli anni del ‘Pirellone’ dove ha governato. Bob Formigoni, ex governatore della Lombardia ai domiciliari per la condanna a 5 anni e 5 mesi (processo Maugeri), come i lupi ha perso il pelo (dell’onorabilità), non il vizio, di far politica. Così ha programmato di spendere i centoventi minuti di libera uscita per partecipare a comizi dei ‘no’. Sabato sarebbe stato a contatto di gomito antiCovid con esponenti della sinistra-sinistra, dei radicali, della destra, di noti costituzionalisti, in piazza San Babila, a Milano, per chiedere di bocciare il taglio di deputati e senatori, ma per fortuna l’ok gli è stato negato, per l’indecenza del proposito.

 

Su altro fronte, si registra l’invito così lo spregiudicato di Bettini, ex europarlamentare PD a votare sì al referendum: “La metà dei parlamentari oggi non fa niente. La vittoria del ‘no’ può essere la pietra tombale sul cambiamento. Il segretario del Pd darà l’indicazione del ‘sì’ ma con una grande riconoscenza alle ragioni del ‘no’, ai compagni che hanno una posizione diversa”. Come fotografia del caos in casa dem, niente male. Conclusione di Bettini: in Cina ci sono 2200 parlamentari, in America 400 e credo sia un Paese più democratico (su quest’ultima affermazione, essendo presidente Trump, ci sarebbe da discutere animatamente).

 

Silvio Berlusconi

In un incontro di calcio o in qualunque altro gioco di squadra, vince non solo chi è tecnicamente e tatticamente migliore e gioca meglio, ma anche e forse soprattutto perché l’avversaria gioca peggio, spesso peggio. Molti, della sinistra superstite, si chiedono smarriti il perché di un Paese, che ha promulgato una Costituzione saldamente ancorata ai ‘sacri’ principi della democrazia, rischi per la seconda volta, a distanza di meno di un secolo, di consegnarsi alla destra populista, suprematista, razzista, neofascista, omofoba, xenofoba, regressiva, di ciarlatani senza alcun presupposto per gestire la mission, per loro impossible, di governare. Sarebbe come accettare che l’Italia nata dalla Resistenza e rifondata con un progetto di altissimo profilo dai padri costituenti, possa rischiare di essere preda di Salvini e del suo popolo di frustrati per mancato appagamento della libido del potere che li fa sbavare; come consentire alla borgatara Meloni di ingrassare politicamente, con la spinta di fanatici mussoliniani e di valanghe di dollari, che la destra mondiale investe sul sovranismo, o ridare fiato al Berlusconi plastificato, che affida il suo verbo sciancato dalla chirurgia maxillo-facciale agli slogan di portavoci acidule al femminile, istruite, grazie a corsi accelerati della scuola serale di Arcore, per recitare a memoria le esternazioni sul nulla del ‘capo’. Tutto questo inverosimile guazzabuglio finirebbe nella raccolta differenziata del non riciclabile, solo che fosse efficiente il servizio di rimozione democratica dei rifiuti tossici. Così non è e la vigilia del voto di settembre oltre tutto non si avvale della giovanile energia di Sartori, leader delle sardine, in ‘sonno’ da inerzia coatta del lockdown.

 

Nicola Zingaretti, che vediamo in apertura con Luigi Di Maio

Circola la domanda se nel Pd vi sia una fronda ostile a Zingaretti, se il patto di concordia interna ai dem, culminato con la sua elezione a segretario era un solo ‘fioretto’ politico a termine, tenuto in piedi da eventi clamorosi, generati dalla cavolata di Salvini del Papete, del mandato bis a Conte per un governo che al posto del verde si è colorato di rosso, per quanto sbiadito e del sommovimento sismico della pandemia. Tregua finita? Sul tappeto incombono grandi e irrisolte questioni: immigrazione, Mes, gravi crisi dell’intero comparto industriale. Lavora nella penombra il progetto di Renzi di uscire dalle retrovie e Bonaccini, governatore dell’Emilia, forte del recente successo elettorale prova a scalare i vertici del Pd per favorire il ritorno in sella dell’ex segretario. La reazione di Zingaretti si riassume nello sfogo “Sono stufo delle ipocrisie”. L’invito erga omnes è di venire allo scoperto”. Intanto il fuoco amico lo accendono Giorgio Gori, Matteo Orfini, Nannicini, il sindaco Sala, anche se da sponde non assimilabili, ovvero quelli del ‘no’ al referendum sul taglio dei parlamentari, pronti a chiedere un’assemblea congressuale sull’alleanza di governo che non tiene, per discutere della leaderhship di Zingaretti, indotto a inseguire il M5S per tenere a bada l’ala destra del Partito. Così facendo il segretario contribuisce al tentativo di ridurre il numero di deputati e senatori, ma mette anche in soffitta il tema fondamentale della riforma costituzionale e del determinante dimezzamento strutturale del parlamento con l’abolizione del Senato, ovvero di un un’istituzione che ostacola la rapidità legislativa con il doppio passaggio da una Camera all’altra.

 

Vito Crimi

Lo scenario di fondo del referendum, disegnato da nomi di grande spessore, è un monito articolato, dettagliato, senza possibilità di equivocare. Il titolo spiga tutto: “Il ‘sì’ al referendum allontana l’Italia dall’Europa” e chiarisce l’aspetto inaccettabile di una riduzione del numero di parlamentari non contemporanea alla riforma dello Stato, che ha come obiettivo di rendere trasparente e operativo il lavoro dei deputati, che non affronta il nodo essenziale della legge elettorale, ma soprattutto che non avvicina il nostro Paese dalla Comunità europea, in vista del piano per l’utilizzo dei fondi concessi dall’Unione in risposta all’emergenza della pandemia.

 

La giusta alternativa al taglio proposto da referendum, la via maestra, per i teorici del ‘no’ è la trasformazione dell’attuale palazzo Madama in Senato federale sul modello di quello americano, con rappresentanze alla pari delle regioni, che comporterebbe la riduzione di più di 250 parlamentari, ma conservando il livello di rappresentanza democratica della Camera dei deputati e aprirebbe alla partecipazione degli enti territoriali al Senato, come chiedono 60 sindaci della Comunità alla commissione europea. Tra gli altri, condividono tuto questo Franco Locatelli, Ernesto Auci, Bruno Tabacci, Innocenzo Cipolletta, Giuliano Cazzola, Pietro Di Muccio de Quattro e Andrea Pisaneschi.

 

Meno parlamentari, più democrazia? Vero solo per i grillini e i loro grilli per la testa sull’antipolitica. Il ‘no’ è un voto contro il populismo e la strumentalizzazione dei grillini nel tentativo di fermare la veloce frana di consensi. Domandano i ‘no’: “Lecito ritenere più democratico un sistema parlamentare in cui i rappresentanti del popolo si dimezzano?” E ancora: “Per un sistema parlamentare è più importante il numero o le funzioni svolte dai suoi esponenti? Non sarà il minor numero dei parlamentari a migliorare la qualità dell’attività delle Camere e dell’intero processo legislativo, anzi è molto probabile che crescano paralisi e disordine. Sul tema referendario si può discutere, sempre che si accompagni al superamento del bicameralismo e non sia concepita per imbavagliare i piccoli gruppi.

 

Di qui l’incomprensibile passo del gambero del Pd, la subordinazione al velleitarismo dei pentastellati, che giocano tutte le residue carte di ex movimento ‘rivoluzionario sull’antipolitica viscerale, disinformata di parte dell’Italia. Colpo secco alla casta dei ‘fannulloni? La vera casta è negli uffici pubblici, nelle aziende statali negli enti locali e lì va stanata. La riduzione dei parlamentari, ammoniscono molti costituzionalisti, non annulla le storture del sistema, come provano a sostenere i 5Stelle e non abbatte in modo significativo i costi del parlamento. Falso il risparmio di 500 milioni all’anno, in realtà sono 280. Il Movimento finge di non sapere che il limite del sistema non è l’eccesso di deputati e senatori, ma il caos dei rapporti tra i livelli del governo, nei contrasti tra potere legislativo, esecutivo, giudiziario, il cumulo di regolamenti caotici. A giustificazione del ‘sì’, annunciato dal partito democratico, si ricorda che il taglio era una proposta Pd, ma vista nel quadro della revisione del bicameralismo, che non è all’orizzonte. Di sicuro c’è che i dem hanno ceduto al ricatto dei 5Stelle all’atto della formazione del governo bilaterale e che continuano a essere subordinati al vincolo del sodalizio giallorosso, al punto di accettare la concorrenza ‘interna’ al voto tra dieci giorni.

 

Sullo sfondo resta solo l’attacco al parlamentarismo e alla democrazia rappresentativa, la tesi dei parlamentari massa di fannulloni. Perfino il numero dei parlamentari che dovrebbero restare dopo il taglio è discutibile per i ‘no’: perché 400 alla Camera e 200 al Senato? Non c’è alcun senso dello Stato, alcuna logica costituzionale. È solo demagogia della ghigliottina, auspicata da chi non riconosce la funzione di rappresentanza della sovranità popolare nel mandato parlamentare e discetta di democrazia diretta, con argomentazioni tanto superficiali quanto ambigue.

 

Quale che sia l’esito del referendum, la competizione di domenica 20 e luunedì 21, è un grande pasticcio e mina ancor di più il prestigio della democrazia parlamentare. L’assurdo è che le spese per sostenere questa legge di riforma costituzionale e per il referendum finirebbero per mangiarsi gran parte dei risparmi ottenuti con la riduzione dei parlamentari. Se non si tratta di una manovra antipolitica e se non ci sono risparmi di spesa, perché ridurre il numero dei Parlamentari? I sostenitori del ‘sì’ finiscono per arrampicarsi sugli specchi e i Cinquestelle sostengono “va fatto, perché lo abbiamo promesso”. Insomma, perché sì.

 

Carlo Cottarelli

L’indiscussa credibilità dell’economista Cottarelli sostanzia, se ve ne fosse bisogno, le ragioni del ‘no’: “Stravolgere la Costituzione per un risparmio irrisorio è stupido. Se vogliamo ridurre il numero degli eletti eliminiamo un ramo del Parlamento”. Sul perché di chi tifa per il ‘sì’, ovvero per un risparmio dello 0,007 per cento della spesa pubblica, di un euro all’anno per ogni italiano, Cottarelli contesta l’esiguità delle risorse in più del bilancio di Camera e Senato. E poi: vincesse il ‘sì’, il primo che avesse la maggioranza in Parlamento, potrebbe manomettere la Costituzione anche senza un motivo serio. Per concludere un paio di ‘autorevoli opinioni dei signorsì. Di Maio: “Modernizziamo il sistema istituzionale’ (che vuol dire lo sa solo lui). Conte: “Non danneggia la funzionalità del Parlamento” (non azzarda la narrazione dei vantaggi discendenti dal taglio…’nega che provochino negatività’). Si vota fra dieci giorni.

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