Casa, dolce casa

Da ‘Io ce credo’, di Eduardo De Crescenzo: “…Ma io ce credo, ancora ce credo, l’ammore a nuie ce pò salvà…a pacienza ce sta, chella ce sta…”
Vincenzo Mollica, che il cielo l’abbia in gloria, ha inventato un’intera serata musicale, una prima serata long time fino alle ore ‘piccole’. Arruolati decine di artisti della musica leggera e non solo; estrapolati da Tg e format di approfondimento stupende immagini della strepitosa Italia in stand by; immessi inserti di testimonianze rese da cittadini qualunque e uomini della scienza, il giornalista di infiniti ‘servizi’ sul mondo dello spettacolo ha confezionato un contenitore esemplarmente idoneo a trascorrere alcune ore pensando positivo, in una fase della pandemia che per gravità di diffusione, numero di vittime e conseguenze economiche oltre che sanitarie, incombe sul subconscio degli italiani, sommersi  dall’invasione mediatica di notizie sul doloroso tema. Il sottofondo verbale di “La musica che unisce”: applausi, virtuali, parole dettate dal cuore,  migliaia di ‘grazie’, nobili pensieri e il termine ‘uniti’ su tutto,  a testimoniare sentimenti di amore, amicizia, speranza, riconoscente ammirazione per chi assiste le vittime del virus rischiando la vita.
Questa è la Rai coerente con il suo status di radiotelevisione pubblica, la Rai che di qui alla sconfitta del Covid-19 può valorizzare il fantastico patrimonio delle teche, i suoi tesori di prosa, musica colta, sceneggiati,  documentari, e non meno il benemerito giornalismo d’inchiesta di storiche rubriche (Report, Presa Diretta, Geo) per farne altrettante serate televisive intelligenti, per tutte le età. Ieri sera, a ragione, Mollica ha scelto di ‘parlare’ specialmente ai giovani, che dall’auto isolamento sono più colpiti, perché privati dell’abituale stare insieme. Da loro e dagli spettatori adulti, viene l’inquietante domanda: “Ma dopo (a virus sconfitto, ndr) saremo migliori?”. Forse sì, ma anche forse no.  La nuova prova di solidarietà zittirà i razzisti, finirà l’ignobile violenza dei femminicidi, salveremo milioni di vite uccise dalla fame, bonificheremo la Terra, fino a somigliare alle metropoli che libere dalle emissioni dello smog in questi giorni sono rinate alla salubrità, eccetera, eccetera? Boh…? Ma sperare non costa nulla e come canta De Crescenzo “L’ammore ce po’ salvà”.
Milena Gabanelli, number one del giornalismo d’indagine: una sua breve, devastante incursione nel Tg7 di Mentana sul tema del deficit di mascherine, che quasi certamente ha provocato lo tsunami sanitario dell’epidemia nelle zone ‘rosse’ del Paese, ha denunciato l’incredibile, farraginoso, labirintico ginepraio della burocrazia, che l’Italia non sa e forse non vuole affrontare, infangata com’è nella proliferazione di apparati clientelari complicati, lenti, inefficienti. La ex di Report (ma la Rai perché  se n’è privata?) ha rivelato che pastoie, cavilli, norme anacronistiche dell’apparato statale, hanno bloccato la produzione delle mascherine salva vita,  perché non dotate dei requisiti richiesti in fatto di compatibilità con i regolamenti di settore, che in fase di emergenza dovevano essere snelliti e controllati con estrema rapidità. L’assurdo è che identica severità non ha impedito a Paesi terzi di esportare le mascherine in Italia, al di fuori di ogni controllo preventivo.
Post Covid-19, saremo migliori? Per snellire l’iter burocratico che frena l’economia italiana a un governo decisionista basterebbe poco. Se cominciassimo da qui per una moderna normalizzazione?

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