RESURREZIONE – ECMO, LA MACCHINA CHE INFRANGE L’ULTIMO TABU’

«Mi spiace signora, ma la ragazza è arrivata qui col cuore fermo. Ha ripreso a battere per un po’, poi si è fermato di nuovo. Non possiamo fare più niente».

L’uomo in camice bianco che esce a volo dalla rianimazione dell’ospedale Cardarelli pronuncia il verdetto con tono fermo, inappellabile. Aveva provato a scappare via, ma era stato afferrato dal braccio di una madre disperata. Le dice le due parole di circostanza, poi scompare nel lungo corridoio.

Dietro quella porta, la persona per la quale “non c’è più niente da fare” è Sara, una giovane di 36 anni. Bella come una madonna, dirà un’infermiera che esce poco dopo con le lacrime agli occhi. E’ volata giù dal terzo piano, alcune circostanze fanno pensare a un caso di suicidio. Ma, quella volta, niente è come sembra.

Sono le 4 di una livida notte di gennaio. Napoli e la zona ospedaliera sono avvolte dal gelo. Il gelo della morte.

Perché il marito di Sara, l’unico che era con lei, non ha chiamato i soccorsi?

Ma, soprattutto: Sara poteva essere riportata in vita?

Il reparto di terapia intensiva all’ASST Papa Giovanni XXIII di Bergamo

La risposta che può dare oggi la tecnologia biomedica è: probabilmente sì. Centinaia, migliaia di pazienti dichiarati clinicamente morti sono “resuscitati” grazie ad un’apparecchiatura complessa denominata ECMO (Extra Corporeal Membrane Oxygenation, Ossigenazione Extracorporea a Membrana), presente solo in pochissimi ospedali italiani, in tutto 9, di cui solo uno al Sud, l’ISMETT di Palermo. Gli altri sono a Milano (IRCCS Policlinico San Donato di S. Donato Milanese e Ospedale Maggiore Policlinico di Milano), Bergamo (ASST Papa Giovanni XXIII), Genova (Ospedale pediatrico Gaslini), Pavia (Ospedale San Matteo), Padova (Policlinico universitario), e due a Roma (il pediatrico Bambin Gesù e l’Azienda Ospedaliera San Camillo).

La mappa della salvezza nel mondo attraverso queste macchine, capaci di restituire sangue vivo ai morti, fin dal 1989 viene aggiornata dall’ ELSO (Extracorporeal Life Support Organization), consorzio internazionale senza scopo di lucro di istituzioni sanitarie dedite allo sviluppo di nuove terapie per sopperire al tracollo degli organi vitali. «La nostra missione primaria – spiegano all’Organizzazione – è quella di mantenere ed aggiornare il registro dei reparti che utilizzano le apparecchiature ECMO, l’ossigenazione extracorporea con l’uso della membrana», che richiede la presenza di personale sanitario altamente specializzato.

Antesignana di ECMO è la prima macchina cuore-polmone ideata nel 1952 dal ricercatore americano John Heysham Gibbon.

«Aiutato dalla moglie Mary – si legge in La storia della cardiologia, di Luciana Rita Angeletti – Gibbon progettò e fabbricò con le sue mani il primo apparecchio in grado di sostituire il lavoro del cuore e dei polmoni. La macchina realizzava un doppio pompaggio del cuore destro e sinistro grazie a due pompe a rullo che comprimevano a ritmo regolare e rapido dei tubi di plastica».

John Gibbon, pioniere della macchina cuore-polmone

«Gibbon disegnò un sistema di ossigenazione che simulasse quello dei polmoni utilizzando una griglia di acciaio inossidabile, piatta, capace di distribuire il sangue in un film leggero che poteva ricevere insufflazioni di ossigeno. Immaginò anche cannule ed aspiratori per il sangue versato nel corso degli interventi. Il 6 maggio 1953, il successo giunse su una ragazza affetta da difetto interatriale; il suo cuore fu escluso dalla circolazione per circa mezz’ora sostituito dalla macchina cuore-polmone».

Bisognerà attendere vent’anni perché nel 1972 con il primo intervento ECMO un paziente adulto sopravviva alla propria morte. E’ di tre anni dopo l’applicazione di questa tecnica in ambito neonatale, settore nel quale si registra il maggiore sviluppo. Robert Barlett, il primo ad utilizzare questa applicazione, nel 1985 illustrava già i risultati di 45 trattamenti con ECMO su neonati: il 56% erano sopravvissuti e, di questi, l’80 per cento non avevano riportato conseguenze indesiderate.

Ma in grossi ospedali pediatrici del Sud, come il Santobono di Napoli, l’ECMO tuttora non c’è. Tanto che diventa una notizia eccezionale il salvataggio di una bambina in crisi respiratoria grazie all’arrivo di una squadra ECMO dal Bambin Gesù della capitale.

E tutti gli altri? Quelli che non hanno il tempo di attendere un’equipe super specialistica, che non sempre ha la possibilità di arrivare, perché unica in tutto il Mezzogiorno?

Quanto al Cardarelli, esaltano giustamente le loro competenze ed attrezzature, i responsabili della rianimazione. 22 posti letto, 20 medici oltre alla direttrice dell’Unità Operativa Complessa, per un «reparto dotato di apparecchiature intensive all’avanguardia», chiariscono. Un reparto nel quale «vengono praticati trattamenti extracorporei per la cura dello shock settico e per la rimozione forzata dell’anidride carbonica».

Tutto vero. Eppure, se Sara fosse nata e “morta” a Bergamo, a Milano, o anche a Roma, oggi quasi certamente sarebbe ancora qui tra noi. Perché in quelle città avrebbe potuto trovare reparti dotati dell’ECMO, l’avanzatissima “macchina della resurrezione” che negli USA è praticamente obbligatoria in ogni pronto soccorso (solo negli Stati Uniti ve ne sono oltre 500) ed ha riportato in vita migliaia di persone giunte in ospedale già clinicamente morte. In Germania la mappa dell’ELSO indica la presenza in attività di ben 15 reparti ECMO (Mannheim, St. Augustin, Regensburg, Tubingen, Wuerzburg, Greifswald, Berlino, Bad Berka, Kassel, Emden, Dresda, Nurnberg, Langen, e due a Colonia). Nel Regno Unito se ne contano 14, di cui 4 a Londra e 2 a Manchester.

 

UN’ALTRA VITA E’ POSSIBILE

Se John Gibbon è il padre delle macchine per la circolazione extracorporea, Sam Parnia, medico di origini iraniane nato a Londra ma operante negli USA, è l’artefice di quella rivoluzione che sposta il confine della vita ben oltre la morte. 49 anni, primario del reparto di terapia intensiva e direttore del Reparto di Ricerca sulla Rianimazione presso la Scuola di Medicina della Stony Brook University di New York, dal 2008 Parnia guida AWARE, il team sorto da una collaborazione internazionale tra scienziati, personale medico ed infermieristico dediti a pazienti che sopravvivono ad un arresto cardiaco. «La moderna scienza della rianimazione – ha dichiarato Parnia allo Spiegel – sarà presto in grado di consentire ai medici di rianimare le persone fino a 24 ore dopo la loro morte».

Sam Parnia

«La morte – spiega Parnia nel suo best seller “Erasing Death” – non può più essere considerata un momento assoluto, ma piuttosto un processo che può essere invertito anche molte ore dopo che ha avuto luogo. Quante ore? Bene, non sappiamo con precisione, ma sicuramente abbastanza a lungo da dire che molti dei 1.514 corpi senza vita scoperti nell’acqua dall’equipaggio della nave di soccorso RMS Carpathia due ore dopo che il Titanic era affondato avrebbero potuto essere riportati in vita se il Titanic fosse affondato nel 2012 invece che nel 1912». «Nel mio lavoro – tiene a precisare il luminare – non studio le persone che stanno per morire, studio le persone che sono morte oggettivamente e medicalmente», tanto che «potremmo presto salvare le persone dalle grinfie della morte molte più ore, o anche più a lungo, dopo che sono effettivamente morte».

Tra le “resurrezioni” documentate nel libro di Parnia, quella di una giovane donna che nel 2011 era stata ritrovata in un bosco alle ore 8.32 in overdose da farmaci. «Era morta. La sua temperatura corporea era scesa da 37°C a 20° C, il che significa che era stata lì per diverse ore. La squadra di ambulanze è arrivata alle 8.49 del mattino, ha somministrato la RCP e le ha colpito il cuore usando un defibrillatore esterno automatico, ma è rimasta morta».

La trentenne arriva in ospedale alle ore 9.22 con una temperatura corporea rimasta a 20 gradi centigradi, le pupille fisse e dilatate, non reattive alla luce, «a significare – chiarisce Parnia – che era rimasta morta».

Dopo le rituali manovre di rianimazione e nonostante gli sforzi per riscaldarla, la temperatura della donna è rimasta invariata. «I dottori – prosegue il racconto – l’hanno poi collegata alla macchina ECMO per garantire l’apporto ottimale di ossigeno. Dopo sei ore di trattamento la temperatura è tornata a 32 gradi e il suo cuore è ripreso. Sebbene fosse rimasta morta fisicamente per almeno 5-10 ore durante la notte senza alcun trattamento, e poi per altre sei ore mentre sottoposta a trattamento salvavita in ospedale, la donna è stata in grado di riprendersi». Tre settimane dopo è uscita dall’ospedale senza danni al cervello e a nessun organo.

In Italia ha fatto scalpore il caso di Michael Mandolfo, la cui storia è stata recentemente riproposta dal Corriere della Sera. Rimasto per 43 minuti imprigionato da un mulinello sotto le acque del Naviglio, il ragazzo è stato letteralmente riportato in vita grazie all’uso dell’ECMO.

Michael Mandolfo

Ma quante centinaia di ragazzi del Sud, che non ci sono più, avrebbero potuto tornare indietro dal baratro della morte? Poteva farcela Sara, quella notte di gennaio a Napoli, se si fosse trovata all’Ospedale di Milano, o al centro avanzatissimo del Papa Giovanni XIII di Bergamo?

«Perché – chiede un padre distrutto dalla perdita del giovane figlio – a fronte delle spese sanitarie pazze nelle regioni del Sud, non si rende obbligatorio in ogni ospedale, e in tutte le città italiane, l’acquisto di un apparecchio per ECMO e l’adeguata formazione del personale ad esso destinato? Forse che la vita dei nostri ragazzi, a Napoli come a Bari o a Cosenza, vale meno di quelli del Nord?».

E dire che l’offerta delle maggiori imprese produttrici di queste sofisticate apparecchiature comprende anche la formazione permanente del personale addetto. Ne è un esempio la svedese Getinge che opera in tutta Europa ed oltre, Italia compresa. Con oltre 10.000 dipendenti in tutto il mondo e profitti per 22,5 miliardi di SEK, la società ha una stella polare che la guida: «concentriamo – dicono – tutti i nostri talenti e le nostre risorse nell’aiutare i nostri clienti a salvare quante più vite è possibile». E arrivano buone notizie anche dal distretto biomedico dell’Emilia Romagna, con la Eurosets di Medolla (MO) che dal 6 al 16 novembre parteciperà in Nigeria al progetto umanitario “Cuore Aperto”, destinato a formare il personale medico in loco sull’utilizzo dei dispositivi Eurosets, utilizzati in chirurgia per l’ossigenazione cardiopolmonare e per l’ECMO.

Nobili iniziative, che però non impediscono al nostro Paese di arrancare su questi innovativi versanti pro life: a parte il forte divario Nord-Sud, non ci sono più tracce nemmeno della Rete Ecmonet, ideata qualche anno fa con lo scopo di «garantire al paziente che ne necessiti l’accesso nel minor tempo possibile alla struttura in grado di accoglierlo», e della quale oggi non esistono nemmeno i siti web, tutti scaduti.

Per fortuna ci sono gruppi di volontari che si danno un gran da fare per diffondere l’uso delle macchine salvavita ECMO. E’ il caso della onlus ecmo per la vita fondata nel 2016 da pazienti tornati a vivere grazie ai medici del Papa Giovanni XXIII di Bergamo ed oggi animata anche dal personale medico ed infermieristico altamente specializzato di quel reparto, dal primario di Anestesiologia e Rianimazione Lorenzo Grazioli, allo specialista in terapia intensiva pediatrica Ezio Bonanomi, coadiuvati da personale di pari, elevato livello, come il perfusionista Davide Ghitti e l’infermiere dell’ECMO Team, Mattia Patelli. Un inno alla vita e alla civiltà, cui fanno da controcanto le centinaia di pazienti “resuscitati” che sul sito dell’associazione raccontano la loro storia perché possa essere utile ad altri.

Intenti nobilissimi. Se solo i burocrati della sanità nel Sud Italia avessero orecchie per ascoltare. E cuore per sentire.

 

(questa inchiesta ripropone ed aggiorna l’articolo pubblicato sulla Voce il 5 maggio 2019)

 

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