Conte Salvini Di Maio: la tempesta perfetta

Il recente voto dello sparuto gruppo 5 Stelle al Parlamento Europeo, che ha consentito la risicatissima elezione di Ursula Von der Leyen alla presidenza della Commissione (cioè del governo dell’Europa), sarà probabilmente uno dei motivi che potrebbero condurre alla crisi del governo gialloverde in Italia.

Non è stato un incidente, o un errore. È stata una scelta di Di Maio, le cui conseguenze potrebbero essere devastanti per il governo di Roma. La Von der Leyen è “passata”, a grande sorpresa generale, con un margine risicatissimo, 9 voti, appunto i “pentastellati”. La spiegazione è politicamente rilevante (e inquietante) per la stessa tenuta della maggioranza europea, che si è rivelata più fragile di quanto non dicessero I numeri di partenza (PPE, S&D e ALDE). Significa che una minoranza importante dei sociademocratici tedeschi non ha votato o ha votato contro la candidatura comune. Il che significa che la gestione Von dei Leyen sarà molto travagliata.

Ma i riflessi sul piano italiano saranno altrettanto importanti. Il vice-premier Matteo Salvini è andato su tutte le furie: “Avremmo potuto cambiare l’Europa”, ha detto con rammarico e rabbia. E questa debacle delle posizioni sovraniste è venuta dall’alleato di governo. Segnale che prelude a un distacco o, come minimo, a nuove polemiche. Ed è chiaro che, senza i voti 5 stelle, la maggioranza del Parlamento Europeo sarebbe stata costretta alla precipitosa ricerca o di un altro candidato, o di pesanti compromessi con le opposizioni, che non sono soltanto sovraniste, ma tra le quali i sovranisti sono ormai dominanti.

Ursula Von der Leyen. Sopra, Di Maio, Conte e Salvini

Facile immaginare quali scenari alternativi potrebbero aprirsi. Il primo dei quali potrebbe essere una futura alleanza tra ciò che resta del M5S e il Partito Democratico. Che però potrebbero avere “i numeri” in Parlamento soltanto — e con difficoltà — se il Presidente della Repubblica Mattarella non sciogliesse le Camere e non indicesse nuove elezioni. Perchè, in tal caso, il M5S risulterebbe dimezzato (ed è la migliore delle sue ipotesi), mentre la Lega risulterebbe raddoppiata (secondo i risultati delle elezioni europee dello scorso 26 maggio).

Le elezioni sono quasi sempre una partita a rischio, ma in questo caso i rischi sarebbero numerosi e tutti imprevedibili. Per tutti i protagonisti. La Lega, che sembrava con il vento in poppa fino a due settimane fa, è ora alle prese con la cosiddetta “Russopoli”, cioè con le disavventure moscovite dei collaboratori di Salvini. Il M5S naviga a vista cercando disperatamente di riguadagnare i consensi perduti (più di cinque milioni di voti in un anno, stando ai risultati delle europee). Ma le sue speranze di recuperare nei confronti dell’alleato di governo si rivelano tenui, se non inesistenti. Tra l’altro il capo del Movimento è ormai apertamente insidiato dal Presidente del Parlamento, Roberto Fico, che cinguetta quotidianamento con la “sinistra”, pronto a sostenere un cambio di casacca dei 5 Stelle, o di ciò che ne resta.

E lo stesso Partito Democratico, per bocca del suo segretario, Zingaretti (in compagnia di Matteo Renzi, l’ex premier sconfitto proprio anche dai 5 Stelle), continua a ripetere che “con i 5 Stelle non si può fare nulla”, ignorando le mani tese che gli vengono offerte. Dunque facendo capire che, in caso di crisi, alzerebbe l’asticella: o per impedire un qualsiasi compromesso con loro, oppure per imporre loro una resa incondizionata. È una classica situazione senza via d’uscita.

La gran parte degli osservatori interpretano il voto europeo del M5S come una scelta ormai chiara di cambio d’indirizzo. Cioè niente più posizioni sovraniste e anti-europee. Niente più fughe contro l’euro. Da movimento anti-casta a disciplinato partito, membro dell’establishment che diceva di voler combattere, quindi disposto ad alleanze e compromessi. Che una tale svolta sia sufficiente per raddrizzare le sue sorti elettorali è però questione molto problematica, e i sondaggi elettorali che si susseguono confermano che la linea di caduta continua, seppure un tantino attenuata.

Salvini è stato chiaro: se continuano a venire dei “no” dall’alleato di governo, in particolare sulle autonomie regionali, sulla manovra (leggi flat tax), sulla riforma della giustizia, allora “sarà crisi, ma sarà una scelta loro, non nostra”. E anche per lui si tratta di decidere se gli conviene approfittare del vento favorevole prima che qualche sorpresa arrivi a mutarlo, oppure se è ancora il tempo del compromesso con un alleato sempre meno convinto di restare tale.

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