Luciano Scateni – I Racconti della Domenica – Gennaio/Giugno 2018

Per i tanti lettori appassionati dei suoi Racconti della Domenica, ecco i testi di Luciano Scateni pubblicati da gennaio a giugno 2018.

 

…………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………

Il Racconto di Domenica 10 giugno 2018

Tra un burraco e una coppa di Champagne

di Luciano Scateni

Cavoli, siamo in pieno rinascimento napoletano? Lo pensano i figli di Partenope che pensano positivo. Passeggiare nei decumani di lunedì o di sabato, domenica è un percorso a ostacoli, dentro un’onda tumultuosa di turisti italiani e stranieri. “Antonio riservami un tavolo per sei a pranzo”. “Spiacente, tutto pieno”. “081 8888: un taxi in piazza del Gesù” “Nessuno disponibile, riprovi tra dieci minuti”.  Dove la via Caracciolo sfocia nella piazza Vittoria e si immette in via Partenope, più di venti persone è in attesa di conquistare un tavolo della pizzeria ad angolo, mitizzata a ragione o a torto come eccellenza di genere. Taccuino in mano, un addetto all’accoglienza risponde garbato alla domanda “Quanto tempo per un tavolo?” con un “Quaranta minuti” che spesso non basta. Ciro, tassista di ultima generazione, è affabulatore appagato dal lavoro che c’è e in abbondanza. “Grazie ai turisti, specialmente quelli che al porto scendono dalle navi crociera e chiedono di potarli in costiera. Il guadagno è buono”. Che dire? Napoli come Venezia, Firenze, Roma, città d’arte baciata dalla fortuna? Se l’immagine fosse in bianco e nero, con luci e ombre, sì. Sono i colori che frenano il “bravo, bene, bis”: servizi carenti, trasporti insufficienti, caos. Chi arriva da altri lidi in questo teatro open space vive l’esperienza tra l’ammirato e il divertito. In più di un caso sono stupiti, interdetti, increduli: fermi tecnici di funicolari e metro, corse a sera inoltrata abolite, servizi ridotti nei giorni festivi, altri stop per scioperi semi individuali, chiese sbarrate o chiuse per pausa pranzo.  Ma…  

Gira euforia nella testa di chi ha Napoli dentro di sé con emozioni antitetiche: amaro-dolce, bello-brutto, magia-stregoneria, iella-fortuna e in laconica sintesi amore-odio. Brulicano di turisti i luoghi della città che molto hanno di caos, folclore, casbah, vociante energia, invadente merceologia spicciola. Rare le incursioni nelle isole di eccellenza, monopolizzate dagli store di grandi firme del bel mondo, esibiti nell’esclusive strade dello shopping per Vip senza scopo di lucro, cioè visibili come spot pubblicitari, frequentati semel in anno dal turismo degli emirati, a Napoli per toccate e fughe su “barche” milionarie, che Gennaro e Maria, cittadini dell’enclave di Secondigliano, quartiere periferico, in fase di passeggio domenicale sul lungomare Caracciolo, immortalano con lo smartphone e sonori “Oh, oooooh”.

Nei salotti del burraco, attività trend della media borghesia partenopea, la conversazione standardizzata si nutre di altri “Oh,ooooh”. In ordine di frequenza, dell’enfasi di “quant’è bella Napoli” a cui fa seguito la voluttà da riscatto del “mai visti tanti turisti”, “C’è l’esaurito negli alberghi”. “Ristoranti, pizzerie, paninoteche, bar, gremiti, un B&B ogni cento metri, tour con visita guidata alle stazioni della metro dell’arte, musei affollati, record di arrivi a Capodichino” (e chi l’avrebbe detto, primo aeroporto italiano della sua categoria). Una voce discorde è tollerata solo in omaggio a Monsignor Della Casa.

Gustavo dice che Napoli è un luogo di collettiva sofferenza, si chiami basso, nel dedalo dei suoi vicoli, o cella d’alveare nelle Vele perdutamente lontane dal cuore della città, nella Scampia delle miserie ereditate come si trasmette il colore dei capelli e della pelle, dove si percepisce a vista lo spessore antico della marginalità in un contesto a specchi che replica all’infinito la dipendenza da poteri malavitosi, in vacanza di normalità e di Stato. Che altro cercare di sociologico nella genesi della micro e macro criminalità di questa Napoli altra? Quale filone sociologico scomodare per indagare cristiani che ammazzano cristiani, che firmano esecuzioni un tanto a cadavere, l’arruolamento nella fabbrica del crimine di ragazzi nati dall’omissis di diritti, di cittadini in fieri di un abnorme segmento suburbano, alienante nella sua totale estraneità sociale, spazio dell’esclusione, incomprensibile a chi come noi socializza al tavolino del bridge o del burraco e lamenta di figli e nipoti la dipendenza da cellulari, droghe e alcol, a dispetto di case ricche di librerie, quadri d’autore e musica colta in dvd. Il lamento include la dolorosa rinuncia a esibire gioielli, a indossare pellicce, a portare al polso il Rolex e in borsa più di venti euro.

Un gomorriano ammazza un casalese che sgarra? E chi se ne frega, finché si scannano tra loro un delinquente in meno, facciano pure. Dal nostro infastidito versante di gente per bene non si ricava che indifferenza per gli extraurbani e insofferenza per i danni collaterali che disturbano gli standard del nostro tra-tran. La città vissuta in  un fine settimana dal milanese, di turno, che si diverte e ironizza sulla caotica napoletanità, è quella dell’ammuina, del turismo di massa, che per il tam-tam del passa parola fa tappa nella via Toledo, dove si affacciano i vicoli con i panni stesi ad asciugare, i festoni di bandierine colorate, gli inviti di Donna Carmela, cucina tipica napoletana, le gigantografie di Maradona e il commercio minuto delle bancarelle stracolme di cianfrusaglie made in China. Che ne sanno i viaggiatori estemporanei della Napoli che se ne muore, espropriata a est e ovest della classe operaia, tout court del tessuto industriale, senza compensazioni, spaccata in due dall’interessata insipienza di urbanisti e costruttori, con la letale discriminante sociale dei quartieri ghetto, prima il Traiano, poi Scampia.

Chi racconta al visitatore occasionale della bella incompiuta, l’amara notorietà internazionale di Napoli letteraria e cinematografica di Saviano e Garrone, narratori di Gomorra, pessimo biglietto da visita della città, il saccheggio di Ozpetek in archivi polverosi, indotto dalla cattiva letteratura a rileggere il peggio della subcultura ultra popolare: il parto dei femminielli, la tombolella, la scaramanzia, il ricorso a stregonerie e leggende misteriche. Questa Napoli piange le sue ferite antiche con lamenti sommessi e invocazioni inascoltate a sanare le cause dei suoi mali piuttosto che i sintomi di una patologia priva di antidoti. E’ bonaccia sui cieli del Sud e il Meteo di chi abita Palazzo Chigi non pronostica venti di contestazione forti quanto richiederebbe una rivoluzione meridionale.

“Chi dà carte?” Meglio applicarsi al gioco delle pinelle, del pozzetto da conquistare al più presto, dell’obiettivo chiusura, della conta dei punti, del burraco pulito, che vale il doppio.

E’ un sera di luna piena, dal lungomare partono raggi laser che tracciano rette luminose nel cielo, si può giocare con le finestre spalancate, ché la primavera sembra estate, lo champagne di benvenuto è francese e freddo senza esagerare, le signore sono in tiro, i maschi si complimentano reciprocamente per la risolutezza di Salvini che libererà il Paese dall’ingombro dei migranti e a un niente dall’insediamento strizza l’occhio ai contribuenti di fascia alta: “E’ giusto che chi guadagna di più paghi  di meno”.

Filiberto, in fine di una mano di burraco, sputtana Manfredo che bara. Si è accreditato cinquanta punti in più e rimescola in fretta le carte per evitare spiacevoli verifiche. Il tavolo glissa, con nobile far play.  Tra signori un peccato veniale non mette in forse amicizie salde, inviti a week end capresi e circumnavigazioni delle Baleari su “barche” da venti metri e passa. Detto tra noi, bisbiglia Severina, di nobili discendenze, nell’orecchio di Clorinda, erede di latifondi da paperontopoli: “Teniamo fuori Gustavo dal nostro giro. A me sembra un vetero comunista, non trovi?”

……………………………………………………………………………………………………………………………………………………

Il Racconto di Domenica 3 giugno 2018

 

Diavolerie 

di Luciano Scateni

L’invenzione è decisamente geniale. La “preteria”, ovvero i governanti del clero superdotati di fantasia creativa, hanno costruito con abile furbizia leggende e miti. Una per tutte la discendenza nostra dall’afflato che avrebbe generato Adamo e l’intervento chirurgico di asportazione di una sua costola, senza spargimento di sangue, per dar vita alla sua compagna, incapace di resistere al diavolo tentatore e al consiglio, in verità molto postumo, di una mela al giorno che getterebbe il medico di famiglia nella condizione di precario, anzi di disoccupato.

Belzebù, orrendo cornuto della mitologia ecclesiastica, ha esercitato sui deboli di mente e non solo su di loro un terrorizzante potere di coercizione a non commettere peccati veniali o mortali. L’immenso poeta ha popolato il suo inferno di diavoli armato di forconi, intenti a comminare “bollenti” sofferenze ai dannati. Gustavo Dorè, con le sue suggestive tavole ha dipinto gli inferi con mano d’artista, in sintonia con il racconto di Dante.

In conclusione: per l’immaginario collettivo il diavolo si è insinuato nel subconscio di gran parte dell’umanità, con il ruolo di giustiziere implacabile e vendicativo.

Il suo apparire come primo attore nel sonno agitato di quanti hanno qualcosa da rimproverarsi, ha provocato incubi, soprassalti, crisi di panico e ha suggerito a scrittori di fama la trama di dialoghi scabrosi tra Satana e poveri cristi, che in cambio di beni materiali gli vendono l’ anima.  Insomma, diavolerie.

Belzebù, sarà lei

Alquanto decentrate, sovrapposte all’incirca ai padiglioni auricolari, le corna. Il pelo irsuto parte dalla testa quadra e va giù fino ai piedi artigliati. La lingua straripa dalla fessura della bocca. “Belzebù sarà lei, dice Belzebù” a chi se ne sta prono per garantirsi briciole di potere, sicuro che logora chi non ce l’ha.

Diavolo d’un cronista, esperto in demoniologia. La penna sagace rivela gusto del paradosso e laica ironia. A seguire i suoi tratti di penna c’è da divertirsi, senza nulla togliere alla premiership del demone, ma per impedire che ci metta corna e coda per impossessarsi dell’anima nostra e il successivo ricorso all’esorcista.

In difesa mi rivolgo al mio pc, compagno di diavolerie informatiche, alla memoria del disco rigido. Il sistema risponde al quesito “Diavolo” generosamente, con 428 file d’archivio, comprensivi dei sinonimi “demonio, belzebù, Mefistofele” e affini.

Mi distrae il 40 pollici Sony,l’english Tg della BBC, interrotto dall’irruzione in studio di attiviste del sesso libero. La mezzobusto d’Albione non si scompone: “Temo sia in atto un invasione. Se non vado errata si tratta di quattro lesbiche, che fanno il diavolo a quattro”.

“Meglio il sesso”. Così una ragazzina di anni quindici all’adoratore di Satana, mister Byron, cognome dal gaglioffo britannico condannato per la sua “prodezza sessuale” in danno di vergini che ha definito possedute dal demonio. “Creda, signor giudice, senza il viatico di un amplesso non mi avrebbe assistito lo stato di grazia che consente l’esercizio di poteri magici. Occhi di brace e folta barba nera, lo stregone assatanatogiura di aver liberato dal male molte fanciulle in fiore, compresa la figlia tredicenne. Sacerdote dell’occulto, e cooptato dal diavolo, racconta che con riti di magia nera avrebbe garantito all’ultima minorenne posseduta, di finire tra le braccia del principe azzurro. Le ha chiesto: “Rito di sangue o di sesso?” “Sesso” dice che avrebbe risposto la fanciulla. Mica masochista!

Il pianeta anglo americano a volte è prodigo di humour. Sacramento, Usa. Philp Wyman, deputato californiano, ha chiesto un’indagine per accertare se il rock è musica del diavolo. L’acuto parlamentare sospetta che i suoi ritmi nascondano messaggi di Satana.

Come sottrarsi a un’occhiataall’aulica Svizzera e non osservare l’elevato contenuto ecclesiale di Monsignor Marcel Lefevre, che nell’’ordinare otto nuovi sacerdoti così ammonisce: “In Francia il diavolo ha propiziato la vittoria del partito socialista” (tiempe belle e ’na vota…).

Rimini. Nel bel mezzo di un meeting super affollato di giovani, il mai abbastanza compianto Enzo Biagi: “Magari il diavolo ha l’aspetto ingiustificatamente composto di monsignor Marcinkus” (quello dello scandalo Ior).

America, America…San Francisco, parrocchia della chiesa pentecostale. Una quindicina di uomini e donne gay pregano, cantano salmi, leggono i testi sacri, tra le mani la bibbia alla pagina che chiede di “superare l’omosessualità in quattordici tappe”. In piazza, fuori, un milione di omosessuali dà vita a un oceanico raduno. Nella chiesa si dialoga sul tempo di redenzione dall’omosessualità. L’esito: un solo caso di pentimento e un solo fioretto di passare sulla sponda degli etero. Infiniti i default delle buone intenzioni, ma qualcuno insiste: “Se non imbocchi la strada della normalità, dio ti abbandona e finisci tra le grinfie dei demoni”.

Il popolo a stelle e strisce, i suoi presidenti. Ronald Reagan, ovvero un cow boy che cavalca sui prati della casa Bianca, comprimario di western da cinema di periferia, tutto chewingum e colt giocattolo. La sua strategia da grandeur si esprime così: “La Russia? È sempre l’impero del diavolo. Ancoradal cuore degli States: i conservatori attaccano George Schulz: “Fa accordi con ildiavolo comunista”.Miami,Florida. In manette Alberto Mesa. Passeggiava nudo, in un quartiere residenziale, in una mano reggeva la testa di una donna. All’arrivo della polizia ha urlato “L’ho uccisa, è il diavolo”. Bill Alexander, deputato democratico, ostile a Reagan, lo accusa di offese. Una tantum prendiamo le difese del presidente repubblicano, reo di aver pronunciato la frase “Ma vai al diavolo”.

Bergamo,festival dei giovani DC e dibattito sul tema “Il diavolo e l’acqua santa”. Presenti Ronald Reagan e il dicci che più dicci non si può Guido Bodrato.

Crociata anti musicale. Il Cairo: in nome di Allah, gli integralisti islamici minacciano l’uso della violenza per convincere gli egiziani che musica e canto sono peccaminosi. “La musica è la voce del diavolo” dice Amira, studentessa di 35 anni, che considerato il deficit della sua carriera scolastica, non è proprio al top dell’autorevolezza, ma insiste: Chi l’ascolta è ateo e chi prova piacere ad ascoltarla andrà all’inferno”.

(continua)

…………………………………………………………………………………………………………………………………………………….

Il Racconto di Domenica 27 maggio 2018

 

Che sfizio pubblicare il non pubblicato…

ANSA, acronimo di Agenzia Nazionale Stampa Associata, è una redazione con presenze capillari sull’intero territorio italiano. Tre quarti di quotidiani, periodici e radio-telegiornali vivono di proficuo parassitismo, nel senso non punitivo del termine, cioè informati dai suoi dispacci su quanto accade in ogni angolo del Paese e non solo. La redazione conta su predatori di notizie di ogni fonte, da cui hanno origine articoli e inchieste dei media. Osservando con occhi impertinenti la mole di invii dell’Ansa, il giornalista non privo di senso dell’humour e di curiosità, potrebbe selezionare, come racconta la nota a seguire, una serie di sorprendenti-divertenti news, probabilmente destinate al cestino del non editabile dal redattore impegnato in faccende più “serie”. Avviso: questi racconti minimali sono sconsigliati a lettori con spiccato senso del pudore e ai fan del linguaggio da Accademia della Crusca, ostinatamente mai trasgressivo.

di Luciano Scateni

“Intimo nordista”. In circuito padan-padano i boxer del Carroccio. “La lega ce l’ha duro” è scritto sulle mutande a righe bianco-verdi, gadget della Lega Nord. E’ il Bossi, ora il Salvini pensiero.

Torino. Macho invadente reso inoffensivo dalla sua femmina, che gli ha addentato il pene per scongiurare la violenza sessuale in corso.

Organizzazione tedesca per la lotta all’Aids si allea con un fantasioso pasticcere di Francoforte e nasce l’idea di uova pasquali con sorpresa-sorprendente. Dentro? Niente ninnoli e affini. Al loro posto una confezione di preservativi.

Wisconsin. Un’organizzazione americana, che si batte per il sesso sicuro, ha bombardato il carcere di Waupun con centinaia di profilattici, lanciati da un aereo da turismo. Le confezioni sono state però sequestrate dalla direzione del carcere, perché considerate di contrabbando!

Il primo amplesso del mondo? E’ di un miliardo di anni fa. Lo rivela il professor William Schopf, paleontologo americano. Il rapporto sessuale numero uno, secondo l’autore della “scoperta”, sarebbe avvenuto tra organismi unicellulari in Cina o in Siberia. (Come la mettiamo con la favola di Adamo ed Eva?n.d.r)

Un’occhiata al futuro e incontriamo la castità spaziale. Dice l’Ansa che il primo viaggio nello cosmo di una coppia marito-moglie non prevede amplessi e neppure il bacio a mezzanotte. Mark e Jan Lee, destinati a volare nello spazio, sottoposti a turni di lavoro astronautico dodici ore su dodici e a debita distanza l’uno dall’altra.

Racconta l’Ansa che fino agli anni novanta del secolo scorso, il prezzo di una ragazza illibata, vergine senza ombra di dubbio, era di 100mila lei. Il costo di una moglie bella e appunto illibata è lievitato a due milioni e mezzo.     Succederebbe nel mondo degli zingari.

Randy Andy, ovvero Andy il mandrillo. Così (sempre ANSA), sarebbe noto il principe Andrea d’Inghilterra, per le sue smanie sessuali. Parte che ne abbia combinate una più del diavolo. In corso di un ballo in maschera avrebbe tirato giù la zip dell’abito di una signora, lasciandola praticamente nuda e paralizzata dalla vergogna. Si dice anche che racconterebbe barzellette molto osé e si rivolgerebbe a ogni femmina che lo attrae dal punto di vista erotico con apprezzamenti da caserma.

Canberra. Ambasciata italiana d’Australia. Durante la proiezione di un video Rai per l’insegnamento della nostra lingua ai connazionali espatriati, anziché assistere alla decima lezione i presenti hanno apprezzato l’esibizione senza veli della famosa pornostar Moana Pozzi. Come giustificare il “disguido”? Guasto tecnico, è il menzognero commento dei tecnici dell’Ambasciata.

Amburgo, Herberstrasse, la via delle prostitute in vetrina. Con straordinaria disinvoltura, un uomo passeggiava nel quartiere dell’eros completamente nudo, ad eccezione del pene, “vestito” con il preservativo, e delle scarpe.

Amore senza età. Negli Stati Uniti un “Romeo” di 36 anni, ha portato via da un ospizio della California una “Giulietta” di anni 96. Fuga d’amore? La polizia ha scoperto che le nonnetta possedeva 500mila dollari e un lussuoso appartamento a Hollywood. Il mancato amante è finito in carcere ed è stato condannati a una penale di 100mila dollari.

Questa è per orecchie che non si scandalizzano. Un “bel tipo” olandese è stato condannato a 18 mesi di reclusione. Il reato? Penetrazione illecita di una salsiccia nella vagina della moglie.

Straordinario il tasso di creatività di una scultrice americana che da studentessa immortalò con il gesso i membri eretti di famosi cantanti rock. L’autrice delle 25 “opere” ha intentato causa (un milione di dollari) all’impresario musicale Herb Cohen che si è appropriato della collezione.

Simpatica l’America. In commercio negli shop dell’erotismo profilattici patriottici. Sulla bustina la bandiera Usa. Stop alle vendite dell’agenzia di sorveglianza sui marchi di Fabbrica, poi marcia indietro perché non sarebbe vilipendio la bandiera nazionale sull’involucro dei preservativi. (???)

Polizia del sesso a New York. “Questa è un’ispezione, vediamo se avete il profilattico”. Le coppie in amore, che non lo avessero usato, potrebbero essere interrotte bruscamente dai poliziotti impegnati a sorvegliare quanto accade nei club privati dove etero e gay s’incontrano per fare sesso. Nessun distinguo tra rapporti anali, vaginali, orali o d’altro tipo (quale altro non è specificato, ndr).

Notizia conclusiva. Shoc in Portogallo per l’immagine del papa (di chi ha preceduto Francesco, ndr) con un preservativo sul naso, trasmessa da un telegiornale. Sdegno e proteste nel cattolicissimo Paese lusitano. La rappresentazione blasfema si deve a un caricaturista ingaggiato da un’azienda produttrice di profilattici.

Anche questo è il mondo

 

 

……………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………….

Il Racconto di Domenica 21 maggio 2018

 

Anche questa è Napoli

“Storie di tutti i giorni…” è tra le canzoni che un tempo sopravvivevano all’aleatorietà del genere musica leggera, all’effimero di questo tempo che brucia tutto in fretta, salvo poche eccezioni. Storie di molte città del mondo, ma che a Napoli, per dirla con una parola difficile, sono uno dei suoi paradigmi.

DI LUCIANO SCATENI

Si chiama Nestore e chissà da quale nebulosa originalità viene fuori un nome così inconsueto per un rappresentante della napoletanità più verace, dell’ex regno borbonico.

Lui è un quarantenne, professionista della disoccupazione, nel senso della piena e in parte cercata stabilità nel precariato che lo avvicina all’enciclopedia dei primati per iscrizione longeva alle liste di settore.

Lui è stabilmente emozionato per la condizione di senza lavoro, anzi se ne commuove e le lacrime a comando che versa sulle guance bianco-nere di barba da incipiente canizie, corrono a ritmo lento nei solchi di rughe precoci.

Giacomino, partner di pigrizia felice, colto da repentina coscienza della dignità che accompagna la fatica, tenta l’amico con l’offerta di un attrattore apparsogli irresistibile: L’hotel Adriatico, quattro stelle, aperto tutto l’anno pubblica un allettante “AAA, cercasi personale – contratto a tempo indeterminato – per vigilanza e portierato, alloggio in albergo”. Il “no” di Nestore arriva in contemporanea con la sollecitazione dell’amico e l’AAA, ma forse ci ripensa. Anzi sì e asseconda la sollecitazione dell’amico.

Bighellona Nestore, arrangia qualche euro per Malboro con filtro, una pacchetto e mezzo al dì, racimolati battendo avversari di primo pelo a “boccette”, nel locale di don Luigi, dove i tavoli del bigliardo sono appena visibili attraverso la cortina di fumo che ristagna nei due metri della striminzita sala giochi. Passa di lì una troupe legger del tg regionale, inviata in città per indagare il mondo delle disoccupazione.

“Lei, si chiama”? “Nestore e non so perché”. “Occupato, disoccupato?

“Disoccupatissimo”. Da quanto? “Da sempre”. Anni? “Quarantatré”. Come sbarca il cosiddetto lunario? “’Nce pensa mammà, campiamo con la sua pensione. Campiamo, mò…facciamo finta di vivere. Sulo che mammà non è eterna e si more (se muore) è meglio ca me sparo”.

L’inviata prova a curiosare nel caleidoscopio informe dei senza lavoro napoletani giovani, di mezza età, decisamente anziani, degli storici della disoccupazione, di quelli in lista d’attesa al prezzo di una tantum per l’iscrizione e di quote annuali ad libitum per dei richiedenti solitari e nuclei corposi di arrabbiati come mestiere. I professionisti del “Lavoro, Lavoro, Occupazione”, strillato nel megafono del loro leader, finanziati dai partiti all’opposizione per far casino, paralizzare la circolazione urbana e presidiare i palazzi delle istituzioni, con slogan minacciosi.

Nestore è un solitario eclettico, che sfiora la soglia della sopravvivenza alimentare tra il 15 e il 16 del mese. Ogni giorno, ma solo per qualche ora e di buon mattino, perché il resto della giornata lo assorbe la sala bigliardo, presidia il quadrivio della congestione, al Corso Umberto. La preda è l’automobilista stoppato dal rosso del semaforo (ammesso che si fermi), a cui offre di lavare il parabrezza. Al rifiuto (“Vattenne, so’ appena uscito dal lavaggio”) offre fazzolettini con il marchio “Napule è, da gettare appena dopo la prima soffiata di naso, incapaci di trattenere un secondo flusso di muchi influenzali delle narici e sputi di bronchitici cronici. Al frequente, indispettito “Vai via, non mi servono”, subentra la zingarella rumena con un bimbo di pochi mesi in braccio”. Un secondo lavavetri si allontana bofonchiando, scoraggiato da vai e torna dei tergicristalli azionati da automobilisti tirchi e un po’ razzisti.

Nestore non è un “caso” estremo. E’ che lui se ne sta in bilico senza dolersene sul baratro comune a migliaia di suoi cloni, ancorati alle misere risorse dei genitori che, come dice Nestore con ferreo pessimismo, sono tutt’altro che eterni.

Lui è successore della dinastia di diseredati che in piena stagione dorotea, allorché il lavoro era esclusività di clienti, amici e parenti protetti dallo scudo crociato, conquistarono la piazza al grido “Siamo disoccupati e organizzati”. Ex detenuti e attivisti divennero così netturbini e parasanitari, giardinieri, fognatori, assunti per posti di lavoro non precari, spesso ottenuti come esponenti delle famose liste del movimento pilotato alternativamente dalla sinistra-sinistra, oggi diremo dai social, o dalla destra caciaresca e sovversiva.

Nel baratro della crisi che attraversa la società napoletana non c’è più un perimetro degno di questo nome che accolga nuova occupazione e neppure c’è posto per la rassegnazione dei senza lavoro. A Nestore non resta che tifare per la massima longevità della madre, titolare di pensione modesta, ma unica fonte di reddito familiare. In verità, scosso da una compagna a sua volta inoccupata e raggiunta la soglia che separa incosciente giovinezza e in piena maturità, Nestore ci prova. Rinfresca le nozioni tecniche apprese a scuola e messe in pratica nell’unica, frammentaria a prova sul campo e risponde al “Cercasi” dell’imprenditore veneto, in ambasce per non aver ricevuto risposte alla richiesta di lavoratori per la sua fabbrica in espansione.

Dopo qualche tempo, il postino bussa una sola volta alla porta di Nestore e gli consegna una lettera, con l’intestazione dell’azienda a caccia di personale. “Egregio signor Nestore…Nel ringraziarla per aver risposto alla nostra richiesta, siamo spiacenti di informarla della nostra scelta di assumere giovani dipendenti della nostra regione. Cordiali saluti”.

E’ una mattina di sole, di quelle che intorpidiscono corpo e mente. La via Caracciolo è ancora sonnolenta, come Nestore, sdraiato sullo scoglio bianco su cui una Anna e un Gennaro hanno disegnato in rosso un cuore che racchiude i loro nomi. Una barca da competizione fila veloce nel mare quieto, un ragazzo di colore salta di scoglio in scoglio per tentare di vendere mini torce, penne a sfera, blocchetti notes, fazzolettini marcati “Napule è”. Non ci prova nemmeno a offrire la merce a Nestore. Tra simili basta un’occhiata.

E anche questa è Napoli

 

 ……………………………………………………………………………………………………………….

Il Racconto di Domenica 25 marzo 2018

Gabriella

di Luciano Scateni

Gabriella, via Luigia Sanfelice, la “Santarella”: un mito. Bionda, alta, personale da modella, ma in carne. L’amava tutta la gioventù del Vomero e non pochi di noi adoratori stazionavamo nello slargo della funicolare di Chiaia per vederla passare, via Bernini, Piazza Vanvitelli, dove ogni mattina prendeva il tram in direzione Santo Spirito. Alla fine dell’anno scolastico il clan degli habitué, bighelloni stanziali nel breve emiciclo prospicente la funicolare di Chiaia, erano attenti a quanti vi montavano su dal terminal del Parco Margherita, perché nel flusso di uscita si mimetizzavano, per fare a botte, “quelli della Riviera”, associati in bande contro i nemici del Vomero, “padroni” del quadrilatero delle vie Bernini, Scarlatti, Luca Giordano, Cimarosa. Già, ma chi tra noi aveva mai pensato di deambulare in strade dedicate a grandi artisti? I punti di rifermento erano altri. L’Ideal, cinema che nelle sere d’estate lasciava respirare e mandava in alto, oltre la sala, la nuvola di fumo densa. A “gentile richiesta” l’addetto al proiettore pigiava sul bottone di comando del tetto semovente e l’applauso saliva entusiastico dai consunti sediolini in legno della platea. L’Ideal, al primo spettacolo, se proiettava western, era territorio off limits per chiunque avesse più di vent’anni e all’ “arrivano dei nostri” gli schiamazzi festeggiavano l’evento battendo i piedi sul pavimento consunto di doghe indi legno, sconnesse. Il superamento dei decibel tollerato dalla proprietà del cinema era zittito da Giggetto, anziana, storica, malandata maschera. Con un fischio da carrettiere intimava alla cabina di proiezione di accendere le luci in sala e interrompeva, sul più bello, il trionfo di John Wayne, sceriffo ammazza banditi.

Il rendez vous serale della combriccola era d’abitudine Geppy, detto Smile, per il suo sorriso a centottanta gradi, Enrico, fine dicitore di barzellette, Lucio e la sua simpatica erre alla francese. In fondo al vicoletto Cimarosa, a un passo dal cancello della Villa Lucia, dono di Ferdinando alla moglie morganatica e parallela alla sontuosa Floridiana, s’imboccava la porticina del biliardo, con un tuffo nell’aria impregnata di fumo e tanfo di chiuso che avvolgeva la sequenza di tavoli da carambola e boccette, giochi dominati rispettivamente da Peppe e Tonino sotto gli occhi vigili di Renato, gestore del locale magro come un chiodo, rannicchiato dietro un tavolino con la cassetta dei soldi, un taccuino per segnare l’orario di inizio del fitto di un tavolo e il pacchetto di “nazionali semplici” una dietro l’altra accese e aspirate a pieni polmoni. Per scala quaranta e ramino, Renato aveva attrezzato un paio di salette interne. Ciro, tredici anni, faceva la spola tra il bar e il biliardo. Alle prime ore del mattino con il caffè in tazza, in vetro, macchiato, corretto, in prossimità del pranzo con bitter e pattatine. Spesso se ne stava in un angolo, incantato, a sbirciare il virtuosismo dei giocatori.

Quella sera Luglio sembrava imitare il solleone d’Agosto e chiudersi nei locali di Renato pronosticava abbondanti sudate. L’idea di alternativa partì da Remo, il più scavezzacollo tra noi, il più spregiudicato, privo di scrupoli, un vero scugnizzo appena maggiorenne. “Ci vediamo sotto l’orologio di piazza Vanvitelli, un quarto d’ora è sono lì”. Arriva alla guida di un “millecento” con il cofano arrotondato, prima serie e senza chiederci perché ci infiliamo in macchina. Viale Michelangelo, via Girolamo Santacroce. Oltre una curva, poggiata a un platano, una donna con mezzo petto fuori dalla camicia a fiori che non lo contiene, una sigaretta aspirata a fondo. Insomma una puttana. Remo s’accosta e la fa salire accanto a sé. Ecco perché ci ha chiesto di stare in tre sul sedile posteriore. Lo stop in una strada senza uscita, su ai Camaldoli. Amplessi frettolosi, come stuprare una bambola di pezza, la povera Giuseppina, palpeggiata grossolanamente scende dall’auto per sistemare la gonna. “In macchina, urla Remo e i disgraziati compagni di un’“impresa” da raccontare al clan della funicolare “Obbediscono”. Giuseppina recita sottovoce l’intero rosario di imprecazioni imparate in anni di mestiere. Un paio rimangono scolpite nella memoria dei quattro bulli.

“Ragazzi, stasera c’è la finalissima Internapoli-Milan Boys, fate il tifo per me”. Mai provata un’emozione così. Grande attesa per l’evento, per la partita delle partite, porte aperte agli abituali frequentatori dei Salesiani, ma anche a parenti e amici dei giocatori, ad appassionati di calcio attirati dalla qualità delle contendenti e dalla presenza di Amadei, centravanti del Napoli e osservatore speciale della società, alla scoperta di talenti.

Calcio d’angolo. Mi faccio spazio al centro dell’area di rigore, il cross è invitante. Mi alzo in orizzontale per colpire con il collo del piede il pallone, ma la robusta marcatura del centro mediano mi sbilancia. Vado giù, sulla pavimentazione del campo in mattonelle, il braccio sotto il corpo. Mi soccorre don Le Pera, Funicolare di Montesanto, ospedale dei Pellegrini, nella popolare Pignasecca: frattura esposta, fasciatura e via. Nel pomeriggio con Gigi, mio padre, ricorriamo alle curea di un ortopedico. Nel suo studio di Via Crispi. Troppi tentativi di ridurre la frattura falliscono, il dolore è atroce. Anestesia, mi addormento e mi sveglio con il braccio ingessato. Com’è finita la finale? “Ha vinto il Milan Boys, ma la tua Internapoli ha fatto una bella partita”.

Gigi è ispettore delle Imposte di consumo, ma la sua vita è altro. E’ un attore nato e un regista di grande qualità. Dirige le filodrammatiche dei salesiani e del circolo Enel, che gestisce un teatro piccolo, ma accogliente in via Roma. Ai salesiani vanno in scena le commedie che non prevedono parti femminili, incompatibili con l’austerity al maschile dell’Istituto e nel periodo natalizio l’immancabile Cantata dei Pastori. D’autorità sono cooptato per il ruolo di Benino. Al circolo dell’Enel è in auge il repertorio di Dario Niccodemi e attrice di spicco è Adriana, attrice di elevata sensibilità. Il teatro è nel Dna di Gigi.

Negli anni della guerra siamo a Roma, lui richiamato al Ministero della Marina, mia madre preoccupata per la scelta del marito di non essere fascista. Nella capitale la compagnia Totò-Anna Magnani mette in scena “Che ti sei messo in testa” e del cast fa partea Gianni Agus, nel ruolo di attor giovane. Deve sere sostituito per ragioni di salute e gli subentra Gigi. Gli chiedono di rimanere nella loro compagnia. Il gran rifiuto gli costa non poco. Si tiene il posto di Ispettore delle Imposte di Consumo e la certezza di uno stipendio garantito a fine mese. Per grazia di Dio la guerra ha fine e con un viaggio complicatissimo, su un camioncino sghangherato, che sbuffa su strade dissestate, siamo finalmente a casa arrampicandoci con il tram lungo i tornanti di via Tasso. Al quarto piano di via Scarlatti, al numero 126, una famiglia ha occupato l’appartamento. Ha perso un tetto con i bombardamenti. Povera gente, per cucinare ha acceso il fuoco sul pavimento della cucina, le stanze sono in cattivo stato, ma è casa mia e si può provare a ritrovare la normalità.

In piazza Vanvitelli mi avvicina un soldato americano. Ho i capelli rossi e le lentiggini, forse gli ricordo il figlio. Mi offre cioccolato e chewingum. Mi parla e chissà che dice, ma che importanza ha, è simpatico.

…………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………..

Il Racconto di Domenica 17 marzo

Scugnizzerie

di Luciano Scateni

Diversamente scugnizzi, i bambini di tutto il mondo sopportano, quando ce la fanno, le pene   dell’ingiustizia sociale, il cinismo dei potenti, l’indifferenza degli adulti. Lamentarsi per le intemperanze dei figli di periferie derelitte è un aggravante del deficit di giustizia che divarica le diversità di chi “per caso”, nasce nel benessere, non solo materiale, e chi deve confrontarsi con il degrado e la marginalità. Quello che segue è il docu-racconto di protagonisti del pianeta solidarietà.        

Rosa Iervolino Russo, prima cittadina di Napoli, ha firmato la significativa riflessione, qui di seguito sul tema della “scugnizzeria” della sua città (Scugnizzi, edizioni Intra Moenia). L’idea di riproporla è di dare consistenza alla “confessione” di Salvatore Di Maio, un ex scugnizzo che racconta l’esperienza della “Casa” fondata da padre Borrelli, in una pubblicazione della “La Città del Sole” dal titolo “Nato il 4 Luglio a Napoli, Le metamorfosi di uno scugnizzo”:

Rosa Iervolino Russo: “In molti luoghi della Terra ci sono bambini che avrebbero voglia di rincorrersi, di tirare calci ad una palla, di inseguire un aquilone, ed invece incontrano ogni giorno un diverso destino. Una mina antiuomo, un buio sottoscala dove cucire scarpe, fame e malattie che, in grandi aree del mondo, spezzano i loro sogni.

C’è da pensare a tutti questi bambini prima di riflettere sulla scugnizzeria napoletana oggi così diversa dalla condizione di tante povertà estreme presenti nel mondo, così diversa anche da quell’idea di geniale impertinenza degli scugnizzi napoletani, del passato e del presente partenopeo.

Ogni giorno molti di loro sfidano ancora le regole sociali, per un modo di confrontarsi con la vita fatto talvolta di vandalismo senza ragione. Spesso condividono il loro disagio con altri piccoli, sfuggiti alle privazioni di Paesi lontani per contendersi l’elemosina ai nostri incroci.

Gli scugnizzi raccontati in questa testimonianza di un tempo non troppo remoto richiamano ancora altre immagini alla mente. Quelle di una città piegata dalle ferite profonde della storia, dei suoi figli senza famiglia e senza casa che diventano lazzari per sopravvivere.

Il “caso” della Caracciolo, che illumina di solidarietà gli anni dal 1913 al 1928, precede la devastazione della seconda guerra mondiale che toccò la nostra città. In quegli anni a ridosso di bombardamenti e miserie, quasi tutta Napoli trovò rifugio nella scugnizzeria, per non restare stremata in ginocchio. L’epopea di Mario Borrelli, prete-scugnizzo raccontato ed esaltato da osservatori di tutto il mondo, è uno degli infiniti esempi della generosità che vive nel Dna dei napoletani.

Oggi siamo in un altro tempo, i nuovi scugnizzi di Napoli hanno altre facce, altri modelli di vita e differenti modi di confrontarsi con la miseria, ma anche queste ferite, come quelle della guerra, richiedono da parte della città un grande impegno per guarire i mali della condizione che gravano sull’infanzia. Sta a noi raccogliere questi segnali e trovare le risposte giuste, che quasi sempre non sono le più facili, per ricostruire attraverso la scuola, le occasioni di incontro, i nuovi spazi, l’invenzione dei parchi ed il coinvolgimento delle famiglie, un rapporto adulto-bambino fatto a misura del loro benessere. È questa sicuramente la nostra scommessa più importante per migliorare davvero il futuro delle nostre città”.

***

Sono davvero uguali a tutti gli altri i bambini del mondo che patiscono i mali di un pianeta progettato dai potenti in una scala infinita di disuguaglianze, i bambini che frugano tra le montagne di rifiuti maleodoranti, ai margini delle bidonville messicane, ai confini di megalopoli che assistono inerti alla morte dei loro figli per fame, stenti, malattie?

Ora contate: uno, due, tre, quattro secondi. Con questa terrificante sequenza temporale un bambino dopo l’altro perde la vita e l’Africa delle povertà estreme ha il tragico primato di queste morti. Bambini costretti da truci schiavisti, mercenari senza dio, imbracciano kalashnikov e uccidono “nemici” di cui non sanno nulla. Bambini con le mani tese chiedono l’elemosina, figli di un tempo cinico, indifferente al dramma di neonati in vita con le sole ossa scarnite, creature condannate da padri e madri malati di Aids, ragazzini che inseguono un pallone bitorzoluto e perdono gambe, braccia dilaniate da mine anti-uomo.

Scugnizzi, figli dell’abbandono, tutti uguali, figli di città dell’ex Unione Sovietica ospiti come topi nelle fognature di periferie emarginate, sotto tetti mefitici, uguali ai bambini avvelenati dai miasmi tossici di Cernobyl? Uguali a chi nasce in case agiate, avviato agli studi, a un futuro rassicurante?

Nel Dna della Napoli schiantata dalla guerra e da antiche marginalità del Sud, orfani e figli della miseria, scugnizzi senza nome, non di rado abbandonati da maternità rifiutate. I racconti che li hanno protagonisti, non solo napoletani, hanno ispirato romanzi, saggi, inchieste televisive di inviati speciali, fotografie da premio Pulitzer, film del neorealismo.

La storia della scugnizzeria napoletana è il racconto di una società che ama i bambini e al tempo stesso ignora i figli della marginalità. Chi frequenta la linea 1 della metro, per sottrarsi a possibili angherie evita le ore a rischio, quando i giovani eredi di “Arancia meccanica” insultano, malmenano, strapazzano i malcapitati compagni di viaggio. Talvolta gli affiliati a queste diffuse mini gang concludono le bravate in Questura, provvedimento che però non scoraggia nuove “imprese”, anche se inconsapevolmente legittimate dalla rabbia per la iella di essere nati a Scampia, in un contesto familiare degradato piuttosto che a Posillipo, nella Napoli dei privilegi.

Scugnizzi è idea globale. Include i bambini lavoratori in luoghi del mondo dove potenti multinazionali e imprese senza scrupoli ricompensano con pochi spiccioli dodici ore e più di duro lavoro. I volti di queste piccole vittime sono uguali in Sudamerica, in Romania o in Nigeria, a Napoli, nelle favelas brasiliane e nei sottoscala di fabbriche clandestine cinesi. Le storie degli scugnizzi hanno perciò valore universale, come il teatro dolente di Eduardo e il suo opposto di città simbolo della “grande bellezza”, racchiusa tra la maestà del Vesuvio e la magia delle isole.

Scugnizzo è un atto di accusa, è denuncia di violenze senza alibi sulla quota più debole e indifesa della società.

Solo Napoli e un napoletano speciale potevano inventare un rifugio protetto per bambini e ragazzi reduci da una guerra, la seconda mondiale, pagata dalla città con morti e devastazioni come pochi altri territori del Paese.  La nascita e il percorso della Casa dello Scugnizzo rivelano sofferenze drammatiche, solitudini di vedove e orfani, emergenze sociali, ma anche un unico, straordinario esempio di solidarietà.      Un prete, don Mario Borrelli, mette in un canto la tonaca, il mandato di custode delle anime dei fedeli, gli studi teologici e diventa scugnizzo tra gli scugnizzi.

A Napoli, era la prima decade del ’900, lo scienziato veneto David Levi Moreno ottenne dal governo, in concessione, l’uso della nave “Scilla” e la trasformò in asilo ancorato nel porto per bambini e ragazzi esclusi dalla scolarità da condizioni sociali di estremo disagio. Nacque il primo “convitto di mare”.

Il Ministero della Marina ha poi duplicato l’esperienza e ha affiancato alla “Scilla” la “Caracciolo”. Il compito di ospitare seicento bambini è stato affidato a Giulia Civita, la “Signora degli scugnizzi”.

Un terzo “miracolo” è della fine della seconda guerra e non poteva che avere Napoli come scenario. Decine di bambini nati da madri e padri impossibilitati a crescerli e istruirli sono stati temporaneamente adottati da famiglie emiliane e hanno trovato solidarietà, affetti.

Il dopo guerra. Sterminate distese di macerie, un quasi niente da mangiare erogato con la tessera annonaria, tutti in fila per un pezzo di pane e poco altro. Tempo di lutti per i morti ammazzati da una guerra suicida, giovani donne in vendita nelle propaggini limitrofe del porto, offerte ai marines senza distinguere il colore della pelle. Carcasse di navi affondate, di carrarmati saltati in aria a colpi di bazooka, rastrellati dai mercanti del ferro per rapidi arricchimenti.  “Americane chi fuma” a ogni angolo di strada, facce smunte, mogli vestite di nero, scheletri di palazzi sventrati da raid aerei, nelle orecchie ancora l’agghiacciante ululare delle sirene, notti insonni negli anfratti del tufo sotterraneo, il tuono delle bombe sopra la testa, l’odore invadente della muffa, angoli dove fare i “bisogni” senza privacy, i bambini, appena messi al mondo, avvolti in coperte autarchiche, la paura negli occhi dei più grandi.

I graffiti: “Venti volte in questo rifugio, quando finirà?”, “Giuseppe, mi manchi, fai smettere la guerra”, “Ho fame”.  

I bambini di Napoli. Scugnizzi. Sciuscià, ladruncoli, procacciatori di clienti per le “signorine”, orfani aggregati a mini bande capaci di sopravvivere con mille espedienti, con il poco racimolato tirando la giacca dei grandi, la gonna delle donne, con la mano tesa e la speranza di richiuderla su una moneta.

Eterna diversità. Tutta l’Italia in ginocchio per la devastazione della guerra, ma il peggio al di sotto di Roma, per storica iattura dei Sud del mondo.

I bambini di Napoli. Sfamarli, inventarsi percorsi di recupero della normalità, vestirli, ripristinare l’approccio alla scuola, il rifugio negato della famiglia e gli eroi di quel tempo, missionari nella terra di drammi collettivi: padre Borrelli, ribattezzato don Vesuvio, prete di strada, fondatore della Casa dello Scugnizzo, straordinaria calamita per centinaia di ragazzi sbandati, senza famiglia, piccoli randagi in una città inerme, impotente, don Mario erede dell’esperienza di Giulia Civita, la Madonna del Mare, che nei giorni duri del primo Novecento, della resa generale ai disagi e alle inefficienze delle istituzioni, chiede e ottiene una nave in disarmo nelle acque di Napoli da adibire a casa e scuola per centinaia di ragazzi abbandonati a se stessi. Celebra questo immenso atto d’amore e di magnifica intraprendenza la canzone ’E marinarielli: “’Sta  nave e chistu mare fanno ’ncantà…tenimmo ’a signora ch’è  a  megli ’e tutt’e mamme….”.

Don Vesuvio, padre Borrelli, prende con sé, su di sé, centinaia di ragazzi senza futuro, precorritori dell’arte di arrangiarsi e diventa con loro una comunità, un soggetto sociale tenuto insieme dalla condivisione di percorsi di sofferenza solitaria che il prete scugnizzo aggancia, scugnizzo tra gli scugnizzi, per recuperare i semplici, fondamenti della solidarietà, della fratellanza.

 

Raffaele Rota, operaio da adulto, ex scugnizzo, si racconta così: “Sono nato in una famiglia numerosa…mio padre una volta lavorava, un’altra no…e si viveva male…ero un poco sbandato e stavo con le bande degli scugnizzi. Sono entrato nella Casa dello scugnizzo e lì ho fatto fino alla quinta elementare…certo, io sono scappato diverse volte, ma non perché non ci stavo bene, anzi… era proprio la mia voglia di evadere: volevo essere libero…una volta, era nel ’56, mi presero e mi portarono nel Riformatorio Filangieri…poi sono stato a Nisida per quattro anni e ci ho fatto le scuole di avviamento, dove mi hanno insegnato a fare il tornitore meccanico. Quando stavo allo Scugnizzo, d’estate ci portavano all’ospizio marino di Posillipo…prendevamo il pullman 118 e se vedevamo una persona anziana ci alzavamo per farla sedere e quelli dicevano “Guarda ’sti scugnizzi comme so’ bravi”.

 

Scugnizzo tra gli scugnizzi

E’ ipotesi forse arbitraria, non impossibile, congiungere il miracolo della “Caracciolo”, nave scuola per bambini e ragazzi della Napoli ferita dalla guerra, all’opera di don Mario Borrelli, alla Casa dello Scugnizzo e con il filo rosso di una staffetta ideale tra protagonisti della della solidarietà.

Mario, al tempo dei suoi capelli bianchi ha avversato con tenacia la rappresentazione delle sue più evidenti qualità di prete scugnizzo, ogni tentativo letterario o giornalistico di evocare il senso di una vita che ha oltrepassato le dimensione pragmatica del sacerdozio per irrompere in una nobile avventura cha aggiunge uno speciale capitolo alla Chiesa “altra”, molto prossima a Cristo, pochissimo alla gerarchia ecclesiastica e al suo potere temporale. Di sicuro c’è che Mario Borrelli, giovanissimo, mise in un cassetto remoto la laurea conseguita in Inghilterra e scese in campo per sfidare la lettura catastrofista della Napoli uscita dalla devastazione della seconda guerra mondiale, incapace di lasciarsi alle spalle l’illecito del mercato nero e del contrabbando di “americane”, la compravendita di soldati Usa da abbandonare nei Quartieri Spagnoli dopo averli riempiti di pessimo alcol e svuotati di ogni avere.     Quando don Mario si spoglia dell’abito talare e indossa stracci sporchi, inadeguati a combattere il freddo e l’assalto dei parassiti, così lontani da un minimo di dignità, deve fronteggiare la stupefatta ostilità dell’apparato ecclesiastico e lo scetticismo polemico della famiglia. Il giovane sacerdote si fa scugnizzo e spende entusiasmo, energie, salute fisica, per mimetizzarsi ed essere ammesso nei circuiti impermeabili delle bande di diseredati che infestano il bronx di una città sbrindellata e incapace di provvedere al recupero dei figli di nessuno. Prima di attrarre qualcuno di questi fratelli di strada al riparo di un tetto, Mario vive la scugnizzeria fino all’abbrutimento, al dolore fisico, all’esperienza della fame che giorno dopo giorno non è più dello stomaco, ma della mente e tesse la rete di quel soccorso popolare che solo Napoli sa proporre nei momenti estremi del disagio collettivo. Molto è stato raccontato della Casa dello Scugnizzo e di Mario Borrelli, ma sulla questione dell’infanzia non protetta, benché siano mutati tempi e modi dell’emarginazione urbana, sono ancora in piedi le ragioni per allungare il percorso della solidarietà che omologa la storia della nave-asilo “Caracciolo” all’esperienza di don Mario Borrelli, da esportare nei luoghi della Terra che per deficit sociale avvicinano est e ovest, Europa, Asia e Africa, sobborghi di New York e periferie delle metropoli di ogni sud del mondo. Scugnizzi, a modo loro, sono i bambini che popolano il buio della rete fognaria di città fantasma dell’ex Unione Sovietica e scugnizzi, sono gli eredi di “Arancia Meccanica” che ammazzano per “gioco” chi incrocia la strada delle loro bravate senza un perché nelle strade di Chicago distanti dall’opulenza. Scugnizzi sono i bambini i, armati come soldati e drogati per superare l’orrore del sangue di vittime di una guerriglia spietata, incompatibile con la stagione della fanciullezza. A loro, ai loro simili noti e sconosciuti, è da ascrivere la storia della “Caracciolo”, di Giulia Civita, di Mario Borrelli, di altri eroi del nostro tempo che riempiono la dolorosa solitudine dei figli di nessuno.

Nel contesto dell’operazione letteraria “Scugnizzi”, edita da Intra Moenia, c’è un primo approccio di Salvatore Di Maio alla memoria di ex scugnizzo, di un percorso di vita che lo ha portato al ruolo di dirigente del Comune di Napoli, come racconta in “Nato il 4 Luglio a Napoli”, in corso di presentazione in questi giorni:

“Io non sono uno degli scugnizzi raccolti da Mario Borrelli. Appartengo alla seconda generazione, quella dal ’58 in poi. Abitavo già nel quartiere, a Salita S. Raffaele, praticamente di fronte alla Casa dello Scugnizzo, e a chiedere a Borrelli di prendermi fu proprio mio padre, tipico napoletano bazzariota, che d’estate vende cocomeri e d’inverno carbone…I primi cinque-sei anni della mia vita erano già trascorsi tra i cumuli d’immondizia davanti alla chiesa sconsacrata di S. Gennaro a Materdei, ma non sapevo molto della Casa dello Scugnizzo, anche se ricordo che molti genitori la usavano come una minaccia verso i figli, dicendo: “Mo’ te mando o Serraglio”, e indicavano la Casa dello Scugnizzo. Anche in seguito, quando mi è capitato di parlare di questa esperienza, le persone lo interpretavano come un luogo in cui io fossi stato rinchiuso . . .Io invece ci ho vissuto per otto anni, dal ’59 al ’67, entrandoci senza particolari problemi…il rapporto d’amicizia con i ragazzi con cui sono stato là dentro è stata un’esperienza importante…Le regole della casa non erano di quelle che fanno star male: erano le solite della convivenza. Alzarsi a una certa ora, fare il letto, andare a scuola, pranzare insieme, fare i compiti con gli educatori, le ore di ricreazione, la cena, un po’ di televisione e poi a letto…La sveglia era un rito da camerata militare…Ogni mattina, dopo colazione, uscivamo, ci mettevano in fila ed andavamo alla scuola elementare pubblica, la “O. Fava” di vico Trone a Materdei, dove ho avuto un insegnante straordinario, il maestro D’Andrea. Nel refettorio proiettava un film ogni mese… L’unico elemento di disturbo, in quel periodo, era dí essere individuato in classe come ‘quello della Casa dello Scugnizzo’…Le regole della casa non erano di quelle che fanno star male. Erano le solite della convivenza: alzarsi a una certa ora, fare il letto, andare a scuola, pranzare insieme, fare i compiti con gli educatori, le ore di ricreazione, la cena, un po’ di televisione e poi a dormire….Dopo la scuola c’era il pranzo, poi il rituale della controra, e finito il riposo si tornava nel refettorio per fare i compiti con gli educatori…La domenica eravamo in libera uscita e per me significava andare nella mia casa di fronte…Devo dire che quei ritorni non erano un momento di gioia. La miseria di mio padre mi pesava sempre di più… Durante le feste lui andava in strada con la chitarra, cercando di fare un po’ di soldi e qualche volta toccava a me andare in giro con il piattino o addirittura di cantare…Altri ragazzi stavano peggio di me, perché orfani….Ci piaceva il padre dei fratelli Caso, che tutte le domeniche, benché non avesse una gamba e camminasse con le stampelle, arrancava da Portici fino a Materdei per vedere i figli…Con loro era molto affettuoso…Erano previste anche le punizioni, ma non si trattava di percosse, piuttosto di privazioni, come restare senza frutta, senza cioccolata o senza libera uscita…L’ultimo periodo di permanenza alla Casa dello Scugnizzo è stato più difficile. Eravamo tutti più grandi, vivevamo in un’unica camerata nel sottotetto del convento, avevamo superato la fase della pubertà e cominciavamo ad avere pruriti sessuali…E’ stato il tempo della sfrontatezza. Una delle scommesse a cui ho partecipato richiedeva di alzare le gonne alle ragazze incontrate in strada…Nel ’67 sono andato via dalla Casa dello Scugnizzo. Che cosa mi ha lasciato di importante la Casa dello Scugnizzo? Per me è stata la scoperta che c’era un mondo oltre i confini di Materdei, è stata l’esperienza che mi ha inculcato il senso della comunità…Ho conseguito la licenza media al “Casanova”, convinto che avrei fatto l’aggiustatore meccanico…Uscito dalla Casa, non ero ancora niente…Ho fatto molti mestieri…il carbonaio con mio padre, ho lavato i piatti, ho lavorato come tappezziere, in una tipografia…La verità? Ho avuto due grandi scuole di vita: la Casa dello Scugnizzo ed il grande partito comunista…Mi è venuta la voglia di essere come i ragazzi delle Fgci, ho cominciato a leggere, a studiare e mi sono iscritto al liceo scientifico, all’università (filosofia, laurea in sociologia)… E’ nata la voglia di cambiare le cose, cominciando da me stesso. L’esperienza della Casa è stata straordinaria, ma purtroppo non ho espresso la sua grande potenzialità. Ancora oggi è un approccio educativo per i ragazzi di strada. Non promette di farli diventare tutti scienziati, ma solo normali. Per quanto so, tutti quelli che come me hanno usufruito dell’esperienza vissuta nella Casa dello Scugnizzo si sono inseriti senza problemi nella società”. 

 …………………………………………………………………………………………………………………………………

Il Racconto di Domenica 10 marzo

IL FANTASTICO DELL’IMMAGINARIO

di LUCIANO SCATENI

Il misterioso incipit di questo racconto sui generis è, come definirlo, un rebus grafico. Le indicazioni per risolverlo: unire i nove punti con quattro linee (rette) senza staccare la penna dal foglio. Non v’incavolate se un inutile arrovellamento mentale si scarica sul sistema nervoso e vi fa battere i pugni sul tavolo con rabbia. Falliscono cervelloni capaci di calcoli aritmetici a centotrenta cifre, pensatori eccelsi, talenti prodigiosi. E fate un fioretto, non leggete la soluzione posta in coda se non alla fine della lettura di questo anomalo racconto che prende le mosse da una favola terapeutica inventata da una psichiatra torinese di nome Gallino.

L’obiettivo terapeutico è invertire il dolore, il disagio, il pessimismo, in positivo, quello che il genio della psicanalisi, Paul Watzlawik, racchiude nella magia della parola “change”, cambiamento.

“Respiri profondi, rilassamento, quiete, sì così, la mente sgombra” prescrive la Gallino. “Sei ai margini di una palude che ti circonda. Acqua stagnante, nessuna trasparenza, paura dell’incognito (cosa sul fondo della palude?) Un passo dopo l’altro, non c’è modo di uscirne, ma dove finisce? Dolorose punture sulle gambe, immerse fino all’inguine nell’acqua maleodorante. Una fitta al polpaccio, un morso? Panico. Uccelli neri, urlanti, sfiorano i capelli, versi di animali sconosciuti, ma chi li emette? Il cielo, per quello che si intravede tra gli ombrelli verdi di alberi secolari, sono neri di pioggia, solcati da fulmini, seguiti da rombi come cannonate terrorizzanti della guerra mondiale. Un cappio alla gola, sempre più stretto, respiro mozzo, qualcosa di viscido che striscia all’interno della coscia, la fine della palude nascosta da alberi piangenti, con i pipistrelli che si levano dai rami in formazione e sfiorano quanto emerge dall’acqua, a pochi centimetri dalle braccia che brancolano nel vuoto come se fosse bendato, cieco. Il malessere sale d’intensità, prende alla gola, accelera il ritmo cardiaco. Il dolore è acuto come una morsa di angina. Sperimenti il limite della resistenza, lasci che arrivi al parossismo, senza resistergli. Ora è sul punto di crollare, forse non c’è via d’uscita…”

D’incanto ecco il margine della palude, lì a due passi. Oltre, ora che ne sei fuori, la magia di un prato soffice. Piccoli fiori di colore intenso segnano il percorso che conduce con dolce pendenza all’esordio di una collina coperta di ginestre in festosa esplosione. Ad ogni passo in su, verso la cima, una causa della sofferenza si dilegua senza lasciare tracce. Spariscono i segni di punture, la stanchezza. I polpacci, messi a dura prova dal fango sul fondo della palude, rispondono alle sollecitazioni della salita senza risentire dello sforzo. La mente elabora immagini di serenità, perfino un vecchio acciacco a carico della schiena sparisce “miracolosamente”. Al culmine della collina sorridi e pensi con autoironia al rapporto litigioso con Lucia, che può cambiare. Sai che entrato in casa il gesto di gettare il giaccone sulla prima sedia che ti capita a tiro la fa andare in bestia e provoca a catena la tua reazione indignata per la sua pedanteria di perfettina. Sorridi con l’idea del change.

Favole, ma funziona davvero? Anche per chi scommette ogni giorni di scrivere cose intelligenti e in buon italiano? Dicono sì di “maghi” di Palo Alto, ovvero i geni dello split brain, del cervello diviso, che lavorano con alacre profitto alla conoscenza della materia grigia e delle sue eterogenee, ma contemporaneamente integrate attività. In due parole, è la spiegazione della scuola di settore più avanzata del mondo, in individui a formazione e cultura occidentale, l’emisfero sinistro sovrintende all’insieme dei processi logico-analitici, al linguaggio, alla razionalità e il destro, sotto utilizzato per subordinazione ai modi di vita della società evoluta, è deputato alla creatività, al sogno, alla fantasia, alle funzioni della memoria e, oltre a molte attività importanti per la salute psicofisica dell’uomo, anche al miglior funzionamento del sistema immunitario.

Se ne deduce che conviene riequilibrare il potenziale dei due emisferi? Per rispondere è sufficiente interrogarsi sul fenomeno dei geni. Perché Mozart componeva musica straordinaria nell’età in cui i coetanei giocano con il Lego; perché Leonardo, Einstein, Picasso, sono uomini della storia, mentre pinco pallino Giuseppe non sa neppure cambiare una lampadina fulminata, Giovanni ammette di essere negato per la matematica e Gennaro non sa neppure come si tiene in mano una matita da disegno? Per ragioni in corso di accertamento, c’è che i geni hanno conservato fin dalla nascita una stretta relazione con l’emisfero destro.

Ho posto domande ovvie ai pionieri della ricerca sull’organo umano che elabora più e meglio di un mega calcolatore e accende la scintilla delle grandi scoperte, la forza narrativa di eccelsi scrittori, l’originalità di musicisti, pittori, scienziati.

Ricevo un paio di risposte propositive: “Guarigioni inspiegabili, esempio estremo è la scomparsa di tumori in stato avanzato, per chi ha fede si attribuiscono a miracoli di Santi e Madonne. Oltre, la scienza accademica non va. Non vuole andare. È duro ammettere che in alcuni casi e con motivazioni diverse, forti suggestioni attivano il sistema immunitario fino ad antagonizzare le cellule tumorali”. Seconda risposta: “Sei un giornalista, uno scrittore? Ricorda, ti capita di metterti al computer e di logorarti inutilmente per la difficoltà di un incipit convincente? Succede e più ti impegni per razionalizzare (emisfero sinistro) la ricerca di un inizio non banale né ripetitivo di un articolo, di un racconto, meno riesce lo sforzo. A un niente dalla resa all’esordio meno condiviso, lo sguardo vaga oltre la finestra che s’affaccia sul mare. Si avvicina al porto una nave crociera. Ti ricorda la traversata nel Mediterraneo con destinazione Malta, il viso angelico di Ester, poggiata al parapetto in coperta, il suo sguardo dolce e intenso. Il cuore batte forte, la fantasia su quel viaggio vissuto come una magia ti connette all’emisfero destro, alla creatività. Le dita corrono sui tasti del Mac e, uscito dalla “trance” emotiva, sai di aver scritto il migliore esordio del racconto sul mare che bagna la tua città”.

Prima di andare oltre un altro rebus grafico: sistemare dieci alberi su cinque file di quattro alberi ciascuna. La soluzione alla fine dello scritto, auguri.

E le maie di change? Provare per credere. Sono uno dei milioni di uomini che dopo una giornata di lavoro rientrano a casa sotto stress. Ogni sera mi libero di soprabito e giacca e li butto lì, dove capita, sulla sedia più vicina. Il dopo appartiene a un collaudato rituale. Mia moglie mi urla appellativi coloriti “Scostumato, ingrato. Lavoro tutto il giorno per tenere a casa in ordine e tu ti comporti come un lazzaro”. Di solito reagisco così: “Ma che brontoli, ho lavorato come un matto, ho affrontato e risolto mille problemi e tu rompi con queste cretinate…”

Lite continua assicurata, reiterata, giorno dopo giorno e così quasi all’infinito per stupidi screzi. Non stasera. Sistemo la giacca nell’armadio, il soprabito sull’attaccapanni e porgo a Lucia il long drink che ho preparato. “Ciao amore, mi sei mancata”. La sorpresa choc funziona. “Litigare per sciocchezze? Mai più”.

Mi convince. Un’altra prova della specularità dei due emisferi? “Se l’ictus colpisce la zona celebrale sinistra, chi lo subisce perde il dono della parola”.

E in positivo? “Betty Edwards, docente di disegno esperta in tecniche di attivazione dell’emisfero destro, sperimenta le tecniche con un gruppo di trenta giovanissimi che denunciano di essere ‘negati’. Dopo tre mesi i partecipanti all’esperienza sembra siano tutti neo diplomati dall’Accademia delle Belle Arti. Come? Parlando al destro con il linguaggio del destro. Se vuoi approfondire, c’è una intera biblioteca di studi, saggi, ricerche della scuola di Palo Alto, pubblicate da Adelphi.

Soluzione 9 punti in quattro linee senza staccare la penna dal foglio

 

Soluzione 10 alberi su 5 file di 4 alberi ciascuna


 

………………………………………………………………………………………………………………………………………………..

Il Racconto di Domenica 4 marzo

L’ITALIA NEL CUORE

di Luciano Scateni

Italiani speciali regalano la vita alla propria terra. La vocazione è antica. E’ dote di uomini e donne impegnati a tessere fitte reti di rapporti internazionali, persuasori per nulla occulti, che promuovono il Bel Paese nel mondo. Quanto conoscono un siciliano, un veneto, un valdostano, del magnifico Abbruzzo, e quanto gli abruzzesi di Bolzano, del Trentino, di Nuoro? Poco, spesso niente. Paradossalmente più delle Maldive, di Formentera. Il ruolo di ambasciatore di chi racconta storie, dei protagonisti di nobili eventi, eroismi, eccellenze, è prezioso, come una missione. Ne scopro uno dicendo sì alla richiesta di partecipare alla presentazione del libro “L’Italia nel cuore” di Goffredo Palmerini. Ne traggo le riflessioni del resoconto-racconto, qui di seguito.

 

“L’Italia nel cuore”, ponderoso volume firmato da Goffredo Palmertini, per un napoletano quale sono evoca le corrispondenze, i racconti dei grandi e illustri viaggiatori dell’800 e del primo Novecento, attratti dal fascino di Partenope, del suo passato, di superfetazioni greche, romane, di dominazioni che la città ha inglobato senza perdere la sua storica specificità. Il docu-libro suscita anche invidia per chi come me vorrebbe esibire di Napoli, ma non l’ha fatto ancora, altrettanta dovizia di personaggi ed eventi incolonnati in grandi numeri, perché li includano strutturalmente.

“L’Italia nel cuore” è come un inno nazionale al merito del Paese, alla solidarietà, all’accoglienza dei migranti, al sentimento collettivo che, fatta eccezione per minoranze intolleranti, ha origine nella memoria delle nostre migrazioni nel mondo.

L’Italia è legittimamente orgogliosa, perché esempio di generosa accoglienza dei migranti costretti a lasciare le loro terre martoriate da guerre sanguinose, feroci tirannie, da fame e quasi nessuna tutela sanitaria. Quanto a solidarietà non c’è possibile confronto tra l’Italia e il resto dell’Europa. L’estremo opposto è il filo spinato srotolato lungo i confini di Paesi membri che non fanno nulla per meritare l’accoglienza nella Comunità e le risorse ricevute dalla Ue: Ungheria, Polonia, in parte l’Austria.

A chi in Italia partecipa alla gara dell’espulsione dal nostro Paese e la quantifica in mezzo milione, seicentomila migranti, la storia ha il dovere di ricordare il numero di connazionali emigrati in fasi successive dal Paese economicamente in ginocchio: milioni e milioni. Non meno convincente dovrebbe essere il dato dell’ultimo censimento degli italiani che oggi vivono in altri paesi. Sono all’incirca quattro milioni e mezzo. Il numero più alto in Argentina (650mila), e in Germania (oltre seicentomila), 300mila in Gran Bretagna. Per la maggior parte si tratta di eccellenze che il mondo accoglie e valorizza. In passato hanno contribuito all’esodo il Veneto, l’Abruzzo, le regioni del Sud, principalmente Sicilia e Campania, territori economicamente arretrati.

Come accade in questo esordio del terzo millennio per i profughi africani, anche i nostri espatriati in successive fasi storiche coincidenti con crisi economiche epocali, hanno cercato lavoro e fortuna sopportando disagi, discriminazioni, ghettizzazioni, prima di omologarsi ai Paesi ospitanti e di integrarsi completamente, fino a occupare ruoli istituzionali di massimo livello, posizioni preminenti nei campi della scienza, dell’arte, dell’imprenditoria.

Chi guarda lontano sa che nel tempo il fenomeno riguarderà anche l’Italia, in generale l’Europa. Già adesso il popolo dei migranti contribuisce con un apporto interessante alla nostra economia e dato non irrilevante, rallenta la tendenza all’invecchiamento degli italiani, con la nascita dei suoi figli. Già tanti immigrati, specialmente africani, sono inseriti nel sistema italiano del lavoro, molti in condizioni disumane, frequentano le nostre scuole, lavorano nelle nostre fabbriche e in molti casi si adattano a svolgere mansioni che i nostri connazionali rifiutano perché gravosi o mal retribuiti.

Goffredo Palmerini, sta dalla loro parte, consapevole della dimensione mondiale del fenomeno e dei tanti abruzzesi emigrati dalla sua terra.

L’autore di “L’Italia nel cuore” è un personaggio di straordinaria poliedricità e di sorprendente universalità. Potrebbe apparire secondario, ma per chi come me si occupa di comunicazione, i dati che sto per citare hanno il carattere dell’eccezionalità. Per promuovere l’incontro napoletano di presentazione del suo libro, il comunicato stampa da lui redatto è stato pubblicato da venti testate, di cui una argentina e una brasiliana. Altre particolarità: “L’Italia nel cuore” ha ricevuto 58 recensioni internazionali nei seguenti paesi: Argentina 3, Australia, Brasile 3, Canada 6, Cile, Danimarca, Germania 2, Lussemburgo 3, Messico, Perù, Polonia, Repubblica Domenicana 2, Spagna 2, Stati Uniti 10, Sud Africa, Svezia, Svizzera 3, Uruguay 2, Venezuela 11. E ancora, da 11 testate on line italiane, 37 abruzzesi, da 9 Agenzie di stampa internazionali, 4 quotidiani, 7 periodici.

Questi dati rivelano antica e attuale contiguità dell’opera di Palmerini con il tema dell’emigrazione, di cui è uno stimato operatore internazionale e sottolineano le relazioni   culturali che intrattiene con personalità di spicco in Paesi come gli Stati Uniti, l’Argentina, il Venezuela, terre di grandi flussi migratori degli italiani.

Avrei voglia di citare come ha fatto Palmerini tutti gli uomini e le donne abruzzesi raccontate dall’autore di “L’Italia nel cuore”, soggetti di una folta e prestigiosa rappresentanza all’estero, ma occorrerebbe ben altro spazio per non dimenticare alcuni degli innumerevoli scrittori, musicisti, scienziati, esponenti di istituzioni internazionali e persone semplici che hanno acquisito meriti speciali in tutti i campi, per generosità, altruismo, competenze.

Goffredo Palmerini, lo testimonia la sua biografia, è come dicevo una personalità poliedrica. Ha rivestito incarichi amministrativi per la città natale, l’Aquila, da assessore e vice sindaco, poi si è affermato come scrittore e giornalista. Ha pubblicato i libri “Oltre confine”, “Abruzzo Gran Riserva”, “L’Aquila nel mondo”, “L’Altra Italia”, l’“Italia dei sogni”, “Le radici e le ali” e questo imponente “L’Italia nel cuore”. Per l’attività letteraria e di giornalista ha ricevuto numerosi riconoscimenti. Di recente il premio internazionale di giornalismo Gaetano Scardocchia, il premio Maria Grazia Cutuli. In passato Palmerini è stato insignito del prestigioso premio Nelson Mandela per i diritti umani.

Come accennato è un apprezzato studioso di migrazioni, autore e componente del Comitato scientifico del dizionario enciclopedico delle migrazioni italiane nel mondo.

Se merita un titolo aggiuntivo è quello globale di ambasciatore dell’Abruzzo nel mondo.

Due colte presentazioni introducono il lettore a “L’Italia nel cuore”. Scrive Luisa Prayer, musicista di fama su Palmerini “E’ innamorato delle storie che racconta, delle persone che incontra, perché capace di una meravigliosa disposizione interiore, aperta, disinteressata, pronta a gioire dei successi dei protagonisti dei suoi reportage”. Carla Rosati, docente universitaria, dice nella prefazione: “Palmerini, in questo suo ultimo lavo ci prende per mano e ci accompagna in giro per il mondo…ci fa attraversare la sua terra…descrive paesaggi magici…annota con finezza di scrittura sensazioni ed emozioni”.

Il libro presentato a Napoli nello spazio eventi dell’editore Guida, preceduto da una nota dell’autore, propone ventitré capitoli e in appendice nove scritti di autorevoli autori/autrici. Per avere un’idea seppure approssimativa, ma il libro va letto con l’attenzione che merita, cito il numero sorprendente di nomi elencati da Palmerini in uno degli indici: sono i trecentoventi di persone che fanno parte della sua narrazione. Un capitolo speciale del volume porta il lettore negli Stati Uniti, dove l’autore incontra personalità abruzzesi affermate in tutti i campi della cultura e della scienza e dov’è conservata la memoria delle migrazioni italiane di cui musicisti, medici, ricercatori e amministratori italo americani sono discendenti.

Noi napoletani andiamo fieri degli innamoramenti per la nostra città, raccontata dai grandi viaggiatori come Goethe, da musicisti di fama. Riconosciamo alla nostra gente eccellenze che si sono affermate nel mondo: poeti, scrittori, drammaturghi. Ricordiamo, a chi considera solo le criticità di Napoli, che tra la fine dell’800 e gli inizi del secolo successivo, la città poteva esibire oltre cento primati in tutti i campi dell’economia, delle scienze, dell’arte.

L’operazione di Palmerini somiglia, per l’Abruzzo, a questo genere di riconoscimenti, che nella stagione attuale si manifesta con lo straordinario merito dell’accoglienza ai migranti, della negazione di ogni forma di razzismo, di una forte e sentita solidarietà.

L’opera complessiva a favore delle emigrazioni di Palmerini svela, in parallelo con Napoli, il ruolo dell’Abruzzo, della terra provata dalle catastrofi naturali, di un’umanità per questo temprata, tenace, intraprendente e stimola il desiderio che si moltiplichino le iniziative come “L’Italia nel cuore”, per ciascuna delle venti regioni del Paese. A Napoli non fanno difetto intelligenze e competenze per sistemare in un’opera enciclopedica eventi, nomi, eccellenze, di questa terra di grandi personaggi, citati individualmente, mai in un contesto globale, esaustivo.

Mi piace concludere con una annotazione sulla ricchezza della documentazione fotografica del volume e, da giornalista, con due domande all’autore. Quale futuro per le aree dell’Italia centrale colpite più volte nel tempo dal terremoto e quali garanzie che la ricostruzione, dov’è possibile, avvenga con sistemi antisismici, con piena trasparenza degli appalti. In altre parole, cioè, come vigilano gli abruzzesi sulla loro terra? Vigiliamo, risponde Palmerini e non c’è motivo per non credergli.

La cronaca racconta tempi e modi della ricostruzione post terremoto dell’Aquila che descrive più bella di prima, con il suo centro storico più grande d’Europa. Di nuovo si fa strada il rammarico per la storica inerzia che e nega la valorizzazione del centro antico di Napoli, ricco come nessun altro di beni artistici e testimonianze del passato.

 

 

Il Racconto di Domenica 25 febbraio

 

Il monito senza tempo della Resistenza

di Luciano Scateni

[Questa narrazione chiede ai lettori la retrodatazione, cioè di riportarla agli avvenimenti degli anni ottanta del secolo scorso, quando l’Italia si è consegnata al governo di centrodestra. Erano già in progress, non così espliciti come in questa vigilia delle politiche di Marzo, le divergenze interne alla sinistra storica e si dimostrò politicamente profetica la scelta di pubblicate il Dizionario della Resistenza, firmata da Gaetano Arfè. Oggi, l’opera assume dimensione di ammonimento, perché il Paese stronchi sul nascere ogni tentativo di legittimazione della destra neofascista. Di sicuro l’opera di Arfè, edita da Einaudi, dovrebbe trovar posto nelle biblioteche scolastiche, per accompagnare con l’autorevolezza dell’autore un’incursione consapevole nella storia italiana del secolo che abbiamo lasciato alle nostre spalle e la cognizione di quanto accade oggi nel mondo e in Italia, investiti da una pericolosa deriva della destra.]

A conoscerli, i partigiani si mostrano spesso lontani dall’immagine pro­posta da alcuni film che fortunatamente ricordano il patrimonio storico e politico della Resistenza. Lo stereotipo degli eroici protagonisti della Liberazione è ben chiaro nella percezione dei più: uomini forti come querce, capaci di sacrificare se stessi, di negarsi agli affetti più cari, di prendere la strada del pericolo incombente in ogni istante e buttar fuori dall’Italia il nazifascismo. In antitesi, ma con altrettanta autenticità, l’im­maginario propone esili figure che hanno donato alla causa intelligenza, esperienze e altrettanto coraggio, ma in retrovia, dove hanno progettato non meno pericolosamente la libertà, il ritorno alla democrazia e le stra­tegie per appropriarsene. Tra molte cose che non so di Gaetano Arfè anche questa: se fu partigiano d’assalto o cervello dell’organizzazione, Mi induce a propendere per la seconda ipotesi la lunga frequentazione di quanto si iscrive nelle ricerche della scuola di Palo Alto, così attenta alle comunicazioni verbali e soprattutto non verbali, da cui dedurre attendibili riflessioni, indizi e giudizi sul prossimo. Le deduzioni prodot­te dall’osservazione di gesti ed espressioni del leader socialista direbbero che è stato uno tra tanti intellettuali che hanno messo temporaneamen­te in disparte studi e ruoli accademici, per offrirsi al prodigio organizza­tivo delle formazioni partigiane. Fossi smentito non scemerebbe comun­que il credito che Paul Watzlawick e l’intera scuola californiana hanno acquisito per le avveniristiche esplorazioni del cervello.

Sono certo che Ciro Raia, suo estimatore e promotore dell’incontro per la presentazione del Dizionario della Resistenza nella prestigiosa sede dell’Istituto degli studi Filosofici di Gerardo Marotta, ha sollecitato al ricordo di Arfè prestigiose menti che lo hanno conosciuto e conservano con rispettosa meticolosi­tà la memoria della sua vita intensa, esemplarmente coerente, generosa.

Di qui la scelta di evitare l’esegesi di un padre dell’Italia, che l’ha attra­versata da protagonista illuminato e, invece, l’intenzione di ricordare un incontro specialmente importante, per me impegnativo, emotivamente unico. A chi ha sfiorato gli avvenimenti chiave della storia recente, suc­cede di convivere con due sentimenti; l’uno riprovevole, d’invidia per altri che vi hanno partecipato, l’altro di soggezione per quanti possono ancora raccontare il loro esserci stati. Non troppo tempo addietro, ho dunque goduto del privilegio di introdurre l’appassionata presentazione di Arfè di un’opera monumentale edita da Einaudi, su un tema colpevolmente incompleto, tanto da sottrarre consapevolezza dell’evento decisivo per la nascita della Repubblica a gran parte delle nuove generazioni. Per qual­che istante ho temuto di essere inadeguato. I timori sono però svaniti alle prime parole di Gaetano Arfè, quieto segnale di benevolenza e di attenzione senza riserve, paritario, che incoraggiava e svelava l’abitudine antica a elargire protezione, ad anticipare il dono di saggezza che lì a poco avrebbe diffuso nella sala del convegno. Per l’avvenimento vi erano convenuti vec­chi compagni, ma anche alcuni giovani, attratti dal carisma del leader socialista e da quanto gli storici hanno rivelato di una sua vita esempla­re e non poco scomoda. Era fresco di stampa il primo volume del Di­zionario della Resistenza, che animò quell’incontro, evocando l’immenso valore della lotta partigiana per la liberazione e l’evidente attualità di quegli eventi da cui nacque l’Italia repubblicana e la Costituzione, det­tata con storica partecipazione da tutte le componenti democratiche. In quei momenti Gaetano Arfè era uno, ma idealmente impersonava tutti gli uomini e le donne incarcerati per aver opposto alla barbarie del nazi­fascismo gli ideali di libertà e di eguaglianza. Gaetano non aveva, o per­lomeno non aveva più, la corporatura di chi anche fisicamente sa di poter contrastare alla pari l’oppressore, eppure ogni ricordo dell’epopea vissuta in condizioni impossibili dava alla sua voce un’energia incontenibile. Ecco, senza alcuna necessità di spingere il volume a grandi picchi, le sue parole erano solide come pietre, emozionanti come lo è stato “I1 ser­gente nella neve” di Rigoni Stern o la cronaca scarna, ma appassionante, di un partigiano piemontese capitato a Napoli, per aprire nel cuore della città lo spazio della Libreria Minerva, per anni terminale moderno del­l’editoria e non meno di dibattiti, di riflessione. Aldemaro Ossella, il partigiano che era in lui, aveva mani grandi e straordinarie storie da tirar fuori, ma a fatica, da una struttura caratteriale schiva. Fisicamente era forse il doppio di Gaetano Arfè, ma per una diversità fatta solo di cen­timetri. L’uno, nonostante l’attività libraria, era a suo agio specialmente allorché il tempo gli concedeva di dedicarsi a lavori manuali, che proba­bilmente favorivano la distanza dalla routine della quotidianità e la memoria di sé partigiano; l’altro, guardando all’indietro, sembrava tra­sformare l’intensità di una vita intera, che i biografi faticano a sistemare compiutamente, in un’esemplare testimonianza di lealtà al socialismo, attraversato non senza sofferenze e ripensamenti in epoche della politi­ca condivise a fatica o rifiutate. Sia l’uno che l’altro dimostravano con lo sguardo, la pacatezza dei forti e idee nobili, uguale appartenenza agli ideali di giustizia, libertà, identica consapevolezza di aver contribuito a sradicare la malapianta del fascismo.

A lungo, ho ripensato all’incontro nel palazzo che ricorda la rivolu­zione del 1799 e mi sono chiesto quale giudizio riserverebbe Arfè al gri­gio e malinconico tramonto della politica che opprime l’esordio del terzo millennio, ai transiti spregiudicati di mestieranti che nascono comunisti e saltano sul carro della destra, di centristi ondivaghi, uomi­ni del liberismo avanzato aggregati al polo riformista del centrosinistra e cani sciolti eletti nelle file di uno schieramento abbandonato un giorno dopo il voto a favore dell’area avversaria. La scontatis­sima risposta introduce l’accostamento tra le due immagini più nobili del socialismo italiano: se Arfè dice di sé di appartenere “alla storia di uomini che non trionfarono mai, ma che non furono mai vinti”, pensa probabilmente al meglio delle nuove generazioni che ancora congiungo­no le loro coscienze agli ideali di “Giustizia e Libertà”. Sarebbe stata altrettanto perentoria la risposta di Franceso De Martino e fu inten­sa l’emozione di condividere, seppure per il tempo breve di un’intervista televisiva, il luogo dove il leader socialista ha vissuto l’ultima parte della sua vita, nella casa-biblioteca di via Aniello Falcone, a Napoli, letteral­mente avvolto dai libri, dedito al suo lavoro intellettuale intenso, in una stanza per il resto scarna, minimalista come si direbbe oggi. L’esponente lombardia­no del PSI, nei suoi ultimi anni di vita, agiva da quella stanza, coscienza severa e rigorosa di un’idea del socialismo esattamente opposta all’interpretazione deteriore del partito guidato da Craxi e dal suo éntoura­ge. Esaurita la quota di rispettosa timidezza, il ruolo di coordinatore del dibattito sul Dizionario della Resistenza non mi ha più procurato disagio e in prossimità della conclusione, è apparsa pienamente l’opportuni­tà di un’opera che ripercorre puntualmente gli avvenimenti della lotta per la liberazione e consegna ai giovani, intatto, il valore di quella esperienza. Pensando alle non cospicue disponibilità economiche dei giovani, chiesi ad Arfè se il prezzo di diverse decine di euro del primo volume non gli sembrasse inavvicinabile e, dunque, incoerente con l’obiettivo di operazione cultura­le generalizzata. Mi disse che condivideva la riflessione e fui certo della sin­cerità, ma anche del suo realismo nella valutare che un’opera tanto com­plessa e ponderosa debba necessariamente richiedere costi elevati. Infine una citazione tratta da suoi scritti nel pieno di una stagione della politica che avvicina, perico­losamente, progetti e programmi dei due poli: “La scomparsa di Ber­linguer… la defenestrazione di Natta, segnano l’inizio del malinconico declino dell’ultimo tentativo di Pani (Sinistra Indipendente). Il nuovo gruppo dirigente del Partito comunista in via di metamorfosi, con l’auto­lesionismo proprio degli ignari e degli ignavi, procede alla liquidazione di un’eredità troppo pesante per le sue gracili spalle… L’operazione si colloca nel quadro del reganismo e del tatcherismo trionfanti e dell’offensiva ideologica ideata da Beffino Craxi, condotta con grande rozzezza cultu­rale ma non con superiore intelligenza tattica”.

“Uomo mite, ma rigoroso nelle idee e nelle scelte”: così, Nicola Tran-faglia definisce Arfè e in qualche modo è quanto ho avuto la presunzione di capire di lui nelle, purtroppo, rare occasioni di incontro e di ascolto.

Così dicevano il volto, sofferente ma insieme sereno, la voce, che assecon­dava la dote di affabulatore tanto colto da sostenere, senza un rigo di scritto, incontri e interviste impegnativi. Come questa: “Cosa pensa del partito democratico?” “Ci credo poco… quando vedrà la luce non sarà robusto per la scarsa partecipazione della gente. “E della ricomposizione della sinistra?” “Possibile ma ci vorrà tempo e soprattutto la capacità di rimettersi tutti in gioco”. Che direbbe ai socialisti?” “Gli direi, riprendi e segui il socialismo di Lombardi”.

Gaetano Arfè

Ad un anno dalla scomparsa di Gaetano Arfè non si è spenta la sua voce autorevole, che mai come oggi avrebbe molto da dire sull’incertez­za caotica e l’etica discutibile della politica.

L’Italia, il 13 e 14 aprile, è stata riconsegnata alla destra, ai conati raz­zisti del secessionismo leghista, al neofascismo di Berlusconi e Fini, al militarismo, alla subordinazione dello Stato laico al clericalismo. La responsabilità della sinistra è di nuovo nella divisione e frammentazione che troppo spesso contrappone strategie e progetti a favore di interessi prevalentemente strumentali, di parte. Il torto del popolo di sinistra e di aver sussurrato, anziché urlare, la censura a comportamenti degli appa­rati che hanno poca o nessuna affinità con le idee e, se non spaventa il termine, con l’ideologia della sinistra.

[Non è difficile immaginare che Arfè, avesse assistito al disastro che potrebbe riaffidare l’Italia al berlusconismo, avrebbe lucidamente individuato la patologia della sinistra e la terapia d’urto per sanarla. Li dove riposa avrà di che riflettere sulla conflittua­lità della sinistra che nel tempo ha generato scissioni e riapparentamen­ti, ma sempre nel segno di obiettivi elettorali e sodalizi di potere].

………………………………………………………………………………………………………………………………

Il Racconto di Domenica 18 febbraio

 

Qua la mano

di Luciano Scateni

Siamo, oramai, oltre ogni confine della tolleranza per i misfatti che relegano l’Italia giù e di parecchio nella graduatoria mondiale delle eccellenze, quasi rassegnati alle brutalità, alla violenza bullista, al gradino infimo della xenofobia. Assistiamo, complici di inerzie istituzionali, al crescendo di aggressioni razziste, a esplicite quanto vietate spavalderie del neofascismo. Poco ci adoperiamo per spiegare all’Italia che lo ignora o finge di non valutarlo il plus valore dei migranti per l’economia del nostro Paese. Questo racconto è un breve spaccato della grande questione che impone di prendere coscienza dei disagi fisici e psichici di chi sopravvive alle insidie mortali del Mediterraneo e ci chiede accoglienza, lavoro, lo status sociale di persona, il riconoscimento della dignità negata nella terra che gli ha dato i natali e niente più. 

Zwanga, rifugiato camerunense: assassinato da una banda di criminali. La sua morte spinse l’Italia a garantire diritti e doveri agli immigrati con la prima manifestazione antirazzista e la partecipazione di oltre 200.000 persone. Ne conseguì la legge Martelli, che riconobbe agli stranieri extraeuropei lo status di rifugiato e i diritti dei lavoratori stranieri e segnò un importante passo in avanti per l’avvio della convivenza multietnica, che nell’attuale fase politica pre elettorale sembra arretrare, negata dal razzismo della destra. Zwanga nasce  in povertà, vive in una capanna di legno e lamiere, ma riesce a completare gli studi, lotta contro  l’apartheid.

Lascia il suo Paese dopo un colpo di Stato e messi al sicuro moglie figli nel Gabon, con il poco che gli rimane compra un biglietto aereo per l’Italia, dove chiede asilo politico. Gli è negato perché previsto solo per i cittadini dell’Europa Orientale. Zwanga rimane in Italia senza alcun riconoscimento giuridico e, accolto dalla comunità di Sant’Egidio, si adatta a svolgere piccoli lavori per sopravvivere. Si trasferisce nel casertano dove gli dicono che può lavorare alla raccolta di pomodori. Ogni mattina all’alba, si ritrova con una moltitudine di immigrati nella “piazza degli schiavi”, assoldato dai “caporali”. Quindici ore di lavoro al giorno e una paga di quarantamila lire per quaranta cassette da venticinque chili riempite di pomodori. Tornato a Villa Literno  dopo un tentativo vano di trovare lavoro a Roma, scopre una nuova consapevolezza delle condizioni di sfruttamento subite dagli immigrati, ma anche il moltiplicarsi di episodi d’intolleranza per i profughi, minacciati di violenze da squadre di picchiatori. I carabinieri trovano volantini che incitano alla violenza: “È aperta la caccia permanente al nero. Data la ferocia di tali bestie e poiché scorrazzano per il territorio in branchi, si consiglia di operare battute di caccia in gruppi di almeno tre uomini”. 

Un gruppo di criminali a volto coperto irrompe nel capannone dove Zwanga dorme con Masslo e altri migranti. I banditi si fanno consegnare il denaro di due mesi di lavoro e al rifiuto di alcuni reagiscono sparando. Colpiscono Zwanga e Masslo a morte.

La Rai trasmette l’intervista rilasciata da Masslo per la rubrica “Nonsolonero”: “Pensavo di trovare in Italia uno spazio di vita, una ventata di civiltà, un’accoglienza che mi permettesse di vivere in pace e di coltivare il sogno di un domani senza barriere né pregiudizi. Invece sono deluso. Avere la pelle nera in questo paese è un limite alla convivenza civile. Il razzismo è anche qui. E fatto di prepotenze, di soprusi, di violenze quotidiane con chi non chiede altro che solidarietà e rispetto. Noi del terzo mondo stiamo contribuendo allo sviluppo del vostro paese, ma sembra che ciò non abbia alcun peso. Prima o poi qualcuno di noi verrà ammazzato ed allora ci si accorgerà che esistiamo”.

***

“Mi dai una mano?” Se frequenti quelli dell’associazione nata nel nome di Masslo ti abitui ad ascoltare questa richiesta di coinvolgimento in un’opera di solidarietà che non consente pause, rinvii e neppure ritardi, che infine condividi, fino a non trovare più alibi per chi non si lascia tirare dentro il grande territorio della partecipazione. In principio stenti a iscrivere il progetto dell’associazione in una cornice di fattibilità. Più che dall’ottimismo della ragione ogni cosa sembra suggerita da disegni ambiziosi e perfino velleitari. È che la normalità non s’accorda con l’eccezionalità e che un centimetro oltre la linea di demarcazione che separa il volontariato dalla società del profitto, sarebbe impossibile sognare, ma specialmente tramutare i contenuti dell’onirico nella realtà delle iniziative pensate per sorelle e fratelli di altri mondi spinti all’esilio dalla violenza di persecuzioni politiche o dal bisogno estremo. Se hai ancora pudore, presto ti starà addosso, con molta pena, la consapevolezza di aver fatto finta di niente e di aver cancellato, perché scomoda, la percezione del disagio estremo che sopravvive faticosamente a due passi dal territorio sociale di tua appartenenza. Per la salute dello spirito di un’umanità non ipnotizzata dai sistemi mediatici di omologazione, diventa grave contraddire l’assioma dell’eguaglianza tra creature che solo casualmente nascono a Copenaghen o a Kigali, a Kampala o nella Milano di via Monte Napoleone.

Impossibile non emozionarsi e non condividere i versi di una poesia per la morte di Masslo:

Sono qui, nel cimitero di Villa Literno. Qui, sepolto sotto una croce senza nome. Non vedo altro che un cielo di terra.

Nel suo nome, in quello di Zwanga tragiche vittime  di un’orrenda barbarie, incide nelle coscienze il racconto di uomini e donne, che sulla loro onestà di creature ancora aggrappate agli ideali di giustizia sociale, hanno edificato la propria strategia della solidarietà e sperano ancora che l’Italia sia terra di speranze e non sono scoraggiati da ripetute  disillusioni.

Questa piccola, grande storia di amore per le vite negate degli emigranti, origina in un luogo speciale, dove il rispetto delle regole è esclusività di minoranze e il degrado diventa luogo di deviazioni per violenti e sbandati.

Nasce a Villa Literno e svela energie sane, capaci di un lavoro duro, difficile, denuncia gli stenti che l’associazione Masslo deve affrontare giorno dopo giorno, per riempire vuoti di presenze istituzionali. Ore di sonno perdute, carriere personali frenate dall’impegno richiesto da questa nobile missione. La ragnatela fitta di rughe scava oltre il dato anagrafico fronti e guance. E’ oscuro, tenace, la logorante operatività, lo stress psicofisico per la ricerca di risorse, non solo materiali, indispensabili a trasformare un buon progetto in operatività.

Questo breve racconto si propone di sollecitare attenzione sulla prodigiosa sinergia tra chi opera nel volontariato  e chiede “Mi dai una mano?” Questa idea di partecipazione è piena di eventi, intenzioni, straordinarie operazioni sociali e umanitarie. Prova a rendere compatibili utopia e sogno con la concretezza di un ospedale da edificare in Camerun, la terra di Zwanga  nel rispetto della la cultura, delle attese di chi ne usufruirà. Il progetto è di un architetto che ha assimilato le specificità della cultura, delle tradizioni, delle caratteristiche morfologiche di luoghi dove sorgerà la struttura. Accantonato il pregresso della progettualità tecnologica, attinge a piene mani a modi di vita, materiali e filosofie dell’Africa per rispetto delle diversità.

In parallelo nascono strumenti di comunicazione dell’associazione e il fine è far crescere l’attenzione per società multiculturali.

Si moltiplivacano i sì alla domanda “Mi dai una mano?” Come lo chiedessero Zwanga e Masslo con le parole di versi che raccontano il sacrificio della sua vita preziosa:

Jerry! Mi chiamava il mio amico chino su di me sanguinante

mentre un balordo fuggiva

con le mie poche lire di immigrato

A sud o a nord, est, ovest: dov’è il Camerun e su quale oceano s’affaccia? Ma guarda poi il mare? Quante anime conta e quanti corpi da sfamare e curare, per liberarli da mali estremi e pericoli imminenti, futuri? Ha governo democratico o tirannia e la pelle dei suoi figli è nera come la pece o mediamente scura, quale religione vi si pratica, su quante lire, euro, dollari, può far conto una famiglia di Douala o Yaoundé? La speranza è che i più sappiano rispondere e mostrare che l’attenzione del mondo non si limita all’indignazione per i civili massacrati in Iraq da bombe e missili, cannonate e raffiche di mitraglia, da incursioni cosiddette chirurgiche e ordigni con esplosioni a grappolo. Purtroppo è modesta la conoscenza del continente africano. Non va oltre qualche cifra poco significativa, e per restare al Camerun, la sua estensione geografica, di circa il quaranta per cento superiore all’Italia o la popolazione, inferiore per oltre il sessanta percento alla nostra. Di emergenze e bisogni poco si sa e bisogna contare sul racconto di chi da quel Paese è partito, senza neppure la valigia di cartone degli emigranti italiani e ora si batte nel nome di Zwanga per la nascita di un ospedale che colmi un drammatico deficit di tutela della salute.

E’ una goccia nell’oceano delle grandi questioni irrisolte? Senza dubbio, ma segnala la concretezza di un impegno che moltiplicato può diventare sistema. Un altro mondo è possibile? Dovrebbero rispondere, ma tacciono, quanti possiedono le chiavi della cassaforte mondiale che governa il controllo sulle risorse della Terra, chi tutela i privilegi delle potenti multinazionali, dei signori della guerra, di chi è padrone del destino dei popoli. Contro questo coacervo di poteri forti può sembrare imparagonabile l’antagonismo degli uomini di buona volontà, ma può avere la meglio l’impegno di contrastare la rassegnazione all’ineluttabile, semplicemente con la concretezza di cento posti letto, sale operatorie, reparti medici, reparti di maternità, pediatria, chirurgia.

Un mondo senza odio e razzismo, un mondo di tolleranza e di pace, di libertà e solidarietà.

…Ora il sogno appartiene a tutti gli uomini…

…………………………………………………………………………………………………………………………….

Il Racconto di Domenica 11 febbraio

Nell’immaginario collettivo, Bermuda, o meglio Bermude perché è un arcipelago, evocano immagini tra loro discordi. Alcuni le ritenendo incluse nel cerchio magico delle caraibiche e ne hanno l’immagine di luogo per holidays vip o meta di viaggi di nozze. Altri associano le isole, un piccolo punto geografico in pieno oceano atlantico, alla leggenda del “triangolo della morte”, di un perimetro marino che avrebbe inghiottito per ragioni sconosciute navi ed aerei. La scienza lo nega e le dà ragione la cronaca dei presunti misteri. Gli ultimi racconti di sparizioni risalgono alla metà degli anni quaranta del secolo scorso (in piena guerra mondiale), nessun’altra da allora. L’oceano è diventato buonista?   Altri sognano le sue spiagge rosate, il suo verde lussureggiante, la quiete ostinatamente difesa dal turismo di massa. Un paradiso in terra. Per pochi giganti della finanza, le Bermude sono davvero un paradiso, ma fiscale, terra di evasioni per miliardi di dollari. Per le grandi compagnie crocieristiche americane le isole sono tappa di un mordi e fuggi imposto dal protezionismo di questo protettorato britannico nei confronti di flussi stanziali del turismo.  Per Berlusconi le Bermuda sono un parco con villa inavvicinabile, guardata a vista da vigilanti armati, in zona esclusiva, dove una barca a vela e un famoso skipper sono sempre pronti a navigare fino e oltre la barriera corallina. 

Cosa può sconvolgere questo angolo di lussuosa mondanità? 

Delitto alle Bermude

di Luciano Scateni

Il “Daily Guardian”, quotidiano bermudiano, fa fatica a riempire con un solo titolo le nove colonne della prima di cronaca del quotidiano più diffuso nell’arcipelago atlantico. Arthur Mosley, il caporedattore, ha faticato anche di più a cercarlo nel vocabolario per lui insolito della “nera” e a conclusione dello sforzo mentale non è certo soddisfatto. Etichettare la strage dei Thompson non è proprio giornalismo normale per l’isola che il mondo intero immagina a ragione un paradiso terrestre del nostro tempo. Il giornalista mette in fila gli elementi utili: coperti di sangue, provocato da ferite inferte con furia dall’assassino, non distanti uno dall’altro sono riversi a terra Adam Thompson e Linda, la moglie con il viso più bello dell’arcipelago ma il corpo sfatto per sei gravidanze ravvicinate. Lui si è trascinato per qualche metro, probabilmente per raggiungere il piccolo tavolo di legno intarsiato, dono di nozze, dove è sistemato il cordless rosso fuoco scelto da Linda. Eduard e Maggie, quattro e sei anni, i corpi straziati e gli occhi sbarrati, sono in terra nel bagno e poco distante gli spazzolini bianchi di dentifricio lasciano intendere che erano stati spediti a lavare i denti prima di andare a letto. Frank ha il viso coperto di sangue, che arrossa il pigiama sulla schiena. I capelli sono arruffati innaturalmente, come se l’assassino avesse agguantato le ciocche bionde per tenerlo fermo mentre lo colpiva con il coltello. Aveva appena tre anni, uno più di Marilyn, uccisa nel suo lettino che ormai era diventato piccolo. Michael, dieci anni, appena uscito dal primo quinquennio di studi, si era attardato in giardino prima di curiosare nel garage, dove il padre aveva attrezzato una piccola officina per assecondare la vocazione al “fai da te”.

Tornato in casa non sente avvicinarsi l’assassino. Si paralizza un attimo dopo. L’uomo – ma era poi un uomo? – preme la lama di un coltellaccio sulla gola di Stephanie, sua gemella e con l’altra mano gli intima di far silenzio, inutilmente. Il ragazzino non avrebbe mai trovato la voce per chiedere aiuto. Terrorizzato subisce la furia animalesca dell’aggressore, il suo ghigno osceno, le minacce dell’arma agitata con gesti isterici che gli sfiorano la gola. Michael, prima di morire, si copre gli occhi con le due mani, per non assistere alla fine cruenta della sorellina e si risparmia anche la violenza turpemente libidinosa del carnefice che ha violato il suo corpicino con brutalità.

Compiuta la strage, il carnefice traccia sulla parete alle spalle dei corpi straziati parole terrorizzanti:

MORIRETE TUTTI
MORIRETE PRESTO

Robert Parrish è smarrito, incapace di decisionismo, sconvolto da un evento che neppure una Cassandra avrebbe mai pronosticato. Il capitano della Bermude Police, dovesse scrivere l’autobiografia di capo dei servizi di sicurezza, avrebbe ben poco di eccezionale da raccontare. Ah, sì, la rivolta dei neri sottopagati, emarginati nell’agglomerato di abitazioni imparagonabili ai lussuosi residence di Saint George, discriminati, esclusi dal circuito privilegiato dei bianchi, subentrati ai fondatori africani dell’arcipelago per farne un paradiso fiscale dominato da big della finanza, banchieri e multinazionali delle assicurazioni. Parrish ricorda di aver contrastato i tentativi di emigrati colombiani di invadere l’isola con la cocaina, la droga dei ricchi, e di essere intervenuto nella capitale Hamilton per mettere fine a una rissa scoppiata nel giardino del lussuoso Rosewood Tucker’s Point, meta di uomini in carriera del venerdì, giorno di ubriacature antistress. Poca cosa se paragonata al massacro dei Thompson.

Lo sconcertato poliziotto capisce di non avere esperienza e attributi per venire a capo della vicenda e d’altra parte fatica a contrastare la pressione del Governatore, a sua volta incalzato dalla stampa.

Idea: S.O.S. per Jo l’americano, detective privato di chiara fama, stimato dall’establisment bermudiano per un suo intervento risolutivo di recupero crediti con le banche statunitensi, difficili da esigere per irregolarità burocratiche. Chiedendo qua e là, il detective finisce per indagare sul boss di una compagnia multinazionale di assicurazioni. Un confidente lo informa del licenziamento di un autista, da quel momento senza lavoro e con una famiglia numerosa da sostenere. L’interrogatorio fuga presto ogni sospetto sul pover’uomo che esibisce un alibi blindato. Nel giorno della strage era a bordo di una barca per la pesca d’altura, ingaggiato da un ricco americano con la passione del mare. Quando Parrish è sul punto di alzare le braccia in segno di resa, arriva da Robert, “amico di tutti” l’aiuto oramai insperato. L’uomo, vicino ai novant’anni, ogni mattina di buon’ora si apposta sul margine della rotonda di accesso al centro di Hamilton e saluta uno per uno gli automobilisti che procedono in direzione del centro uffici. Nel giorno degli omicidi è stato quasi travolto da un turista barcollante, pieno di alcol, farneticante. A Robert non sono sfuggite le macchie di sangue sulla giacca dell’uomo e meno che mai le frasi farfugliate con la lingua impastata.

Parrish è tutto orecchie: “Cosa diceva?” “Parole su parole che mi sono sembrate senza senso” “Per esempio?” “Dio è grande, si è vendicato… non l’hai fatta franca… giustizia è fatta…”

La Princess è sempre ancorata nella rada di

Hamilton, impedita a proseguire la crociera da un guasto al sistema elettrico e il comandante Mc Gregor bestemmia, subissato di improperi dell’armatore, ma non può negarsi all’ufficiale di polizia.

“Comandante, pensa che possa esserci un nesso tra

il racconto del vecchio Robert, gli omicidi e uno dei suoi passeggeri?” “Non posso escluderlo. Mi faccia parlare con il personale addetto alla pulizia delle cabine e alla lavanderia”. Dolores, cameriera del piano “nobile” della nave riferisce di una stranezza su cui è passata sopra per non intrufolarsi nella vita del passeggero, ma ricorda che le ha dato per la lavanderia un giaccone con maniche e parte del davanti sporche di rosso, anche se sbiadito, come per un tentativo malriuscito di pulirle. “Non ci giurerei, ma doveva essere sangue”. Parrish chiede via email notizie del passeggero alla compagnia di navigazione e la risposta è sorprendente. Il responsabile della crociera confida le perplessità nell’accettare il passeggero Steven Hardy, perché noto alcolista con precedenti penali.

Ci siamo, pensa il poliziotto. La prova di aver fatto centro si deve a uno steward in servizio la sera della strage. Ha visto il passeggero uscire dalla cabina

barcollando, appoggiarsi alla balaustra del piano e vomitare. “Ho visto altro. Ha preso dalla tasca un panno da cui mi è parso sporgere la lama di un coltello e lo ha lanciato in mare”. Per Parrish caso chiuso e sospiro di sollievo, ma di più, la prospettiva di tornare alla dorata inattività, arricchita da scorribande in catamarano per circumnavigazioni delle Bermude, paradiso esente da mafie, ladruncoli e rapinatori.

…………………………………………………………………………………………………………

Il Racconto di Domenica 4 febbraio

Dream team, neapolitan apoteosi

di Luciano Scateni

Barcellona: emozioni irripetibili, adrenalina a mille, anche paura, di non saper raccontare, lucida consapevolezza che la telecronaca di Spagna-Italia, Olimpiadi del 92, partiva da bordo vasca della piscina Picornell per finire sugli schermi televisivi, negli altoparlanti dei radio e radioline, in tutta Italia e mostrare gli esalanti minuti del tripudio in vasca, l’abbraccio in acqua degli azzurri, il tuffo non spontaneo di Ratko Rudic, sergente di ferro alla guida della nostra nazionale, i suoi ragazzi schierati a bordo campo, mano nella mano mentre sugli spagnoli piovevano le note dell’inno di Mameli e la bandiera tricolore saliva alta sul pennone. Se a sedici anni distanza ricordo di aver raccontato Per la Rai quell’impresa è per non dimenticare gli eroi napoletani di quel “sette bellissimo”, il loro grande slam (Olimpiadi, Europei di Sheffield, Mondiali di Roma). Sandro Campagna, un altro  protagonista siciliano di quell’impresa, ora prova da tecnico della nazionale a far rinascere il dream team. Non gli sarà facile. Non nascono a comando i Porzio, Fiorillo, Silipo, Gandolfi. 

Dream Team sembrava ai più il titolo che solo il quintetto di Magic Johnson avrebbe sopportato: chi è malato di basket ha vissuto Barcellona ’92 ubriaco di velocità, funambolismi, performaces atletiche planetarie, tap-in stratosferici e assist marziani, iper-riflessi, combinazioni balistiche soprannaturali.

Ai più sembrava impossibile che qualunque altra impresa olimpica invadesse l’immaginario onirico con suggestioni di pari emotività, ma i più sarebbero stati smentiti dall’epopea che in un torrido pomeriggio di Spagna la piscina Picornell ha riservato al popolo degli sportivi italiani con un giusto mixage di spettacolarità, trance agonistica, orgoglio nazionalista e rabbia in corpo. La Spagna di Estiarte era certa di far calare il sipario dei Giochi sul trionfo in acqua dei suoi figli focosi, in danno di chiunque avesse osato contrastare il progetto. La pallanuoto iberica era tecnicamente attrezzata per l’impresa, in tribuna era incitata dal re Juan Carlos in perona, la benevolenza dell’arbitro Martinez era clamorosamente evidente, le condizioni ambientali aumentavano in misura esponenziale la tendenza del destino a incoronare gli spagnoli. Manuel Estiarte, il fenomeno, aveva disertato il campionato italiano nell’anno precedente le Olimpiadi, per dedicarsi all’evento del ’92. Peccato, per lui, la Spagna, il suo re e gli sceneggiatori dell’ultima giornata di Giochi, che la vasca per la finale di pallanuoto, fosse abitata dalle calottine tricolori e che a indossarle fosse la più prodigiosa miscela d’ogni tempo di tecnica, intelligenza tattica, forza fisica e capacità di concentrazione. Questa Italia fu epica. Senza le nefandezze di Martinez avrebbe fatto della Spagna un sol boccone e concluso la sfida con un normale carico di fatica. L’impianto napoletano del Settebello era una spina dorsale d’acciaio, l’incredibile sintesi delle virtù che fanno di un pallanuotista un fuoriclasse.

Ineguagliabile la capacità di Mario Fiorillo di leggere la partita, dirigere l’inerzia del gioco, sostenere mentalmente la squadra nei momenti di crisi, inventare scintille di classe pura per affondare il nemico e spingere il morale dei compagni fin su nel cielo terso di Barcellona.

L’impeccabile Pino, poi. Porzio junior ha un torto anagrafico e lo ha scontato nel percorso di una carriera fulgida, esemplare: la vocazione genetica a presidiare le zone arretrate dello schieramento ha oscurato un tasso di classe limpida, compiuta, per “colpa” di un fratello che, scelta la via dell’attacco ha colpito l’immaginario collettivo con i suoi missili acqua-acqua di rara potenza e precisione. Non che Pino fosse estraneo al dum-dum che piega le mani dei portieri, ma le ragioni della sua grandezza erano soprattutto nella monumentale e statuaria capacità di presidiare la difesa, di neutralizzare con autorevolezza il potenziale d’attacco di avversari che avrebbero fatto tremare i polsi a chiunque, nella “olimpica” saldezza di nervi a cui l’intero reparto attingeva nelle fasi di gioco più dure.

Nando Gandolfi, quarto caso di stupefacente napoletanità. Se alle spalle di un atleta, nella ribollente tensione della piscina spagnola c’è un match fisicamente devastante e psicologicamente logorante, se gli spalti sono ipereccitati come le gradinate della Plaza de Toros nei giorni di San Isidro, se un re incita i suoi alla vittoria e se a bordo vasca infierisce un fischietto nemico, se nella mano destra di un azzurro s’incolla un pallone che brucia a temperature da ebollizione, se quel pallone può scrivere la parola fine alla disputa sulla conquista dell’oro, se la posizione dell’attaccante è decentrata rispetto alla porta nemica e le braccia del portiere sembrano tentacoli mostruosi, insuperabili, si può scommettere che cento grandi della pallanuoto su cento avrebbero esitato e cercato una mano amica su cui caricare la responsabilità del tiro della vita. Invece energia del terzo tipo nel braccio di Nando Gandolfi, coraggio nel cuore, incoscienza nella mente, la grandezza di uomo senza paura, di scugnizzo adulto, una prorompente napoletanità. Nando ha caricato il braccio e ha infilato il missile tra palo e braccia del portiere, ha chiuso la sfida dopo sei terrificanti supplementari, ha tolto la voce ai diecimila della Picornell e amplificato gli osanna degli italiani al seguito. Neapolitan Apoteosi.

Di pari spavalderia è fatta la tempra di Franco Porzio: si sa, per verifiche sul campo, che molti avversari hanno involontariamente agevolato la sua fama di possente uomo-gol per sudditanza psicologica o, più brutalmente, per paura. Il suo sinistro dovrebbe essere raccontato da un docente di anatomia funzionale. La capacità di caricarlo come una potentissima e imprevedibile fionda è generoso dono della natura, ma la perizia di usarlo per imprimere al pallone le traiettorie maligne che hanno fatto piangere i più grandi portieri del mondo è cosa di Franco Porzio, del lavoro di fino per impugnare il pallone con artigli d’acciaio e lasciar partire bordate ad andamento quasi innaturale, grazie a quantità e qualità di effetto variabili, in sinergia con le condizioni complessive dell’azione offensiva. S’arrabbiò molto il biondo mancino, in quel di Sheffield, allorchè gli inglesi per gli europei del ’93 misero in acqua palloni con rugosità di superficie inferiore alla norma. Franco vide troppi palloni schizzar via dalla parabola vincente. Albione fece marcia indietro, Franco riprese a far paura al nemico, oro italiano.

Chi ha visto evolvere gli equilibri psicofisici di Carletto Silipo, giovanissimo cardine del Posillipo e della nazionale, ha intuito che il gigante azzurro avrebbe aumentato con sistematica regolarità la classe innata, la potenza delle leve, la capacità di intimidire l’avversario, la lucidità e il coraggio di scelte di tiro che hanno risolto mille battaglie e specialmente nei momenti in cui il gioco è bloccato da marcature individuali asfissianti e dispositivi a zona impenetrabili, da maglie fitte difensive in inferiorità numerica. In ciascuna di queste situazioni estreme Carlo è stato, è, la risorsa che neutralizza l’implacabile trascorrere dei secondi concessi per l’offensiva. In sintonia con la maturità psicofisica, Silipo esplode a Roma nell’incanto dello stadio del nuoto, quando l’oro del mondiale conclude l’esaltante trilogia Olimpiadi, Europei, Mondiali e giustifica l’estensione al Settebello del titolo Dream Team.

Due fantastici difensori, un jolly grandissimo, un regista di straordinario ingegno, un irresistibile ariete, ovvero Carlo Silipo, Pino Porzio, Nando Gandolfi, Mario Fiorillo, Franco Porzio, fanno grande la tradizione della pallanuoto napoletana che continua a generare campioni dalla mentalità vincente.

Deviando solo per un momento dal percorso della napoletanità è facile congiungere all’anima partenopea la nobiltà di un atleta simbolo che ha vissuto la storia della nazionale dei miracoli con pari intensità: identica la fatica di preparazioni massacranti, i sacrifici, le rinunce, imparagonabile un protagonismo per nulla appariscente, ma fondamentale nel cosiddetto spogliatoio. Gianni Averaimo, preceduto da Attolico per scelte della panchina, ha sofferto e gioito per tre lunghi anni a bordo vasca senza mai un gesto di insofferenza, una cenno polemico, un’espressione contrariata. Anche a lui si deve la legittimità dell’etichetta Dream Team che adorna le calottine di una nazionale forse irraggiungibile.

Pensate alle imprese di Barcellona, Sheffield e Roma e provate a cancellare quei nomi, quella prodigiosa congiunzione di talenti e personalità dalle formazioni che hanno realizzato il grande slam, a sostituirli con altri campioni del loro tempo: ci ha provato Rudic, nel segno del cambiamento e sognare con il Dream Team è diventato una gran fatica.

————————————————————————————————–

Il Racconto di Domenica 8 gennaio

Governi come i marinai, promesse al vento

di Luciano Scateni

Il primato dell’infingardaggine dei governi italiani, sputtanati per inerzie pluridecennali nell’affrontare e risolvere il dopo terremoto, spetta al Belice, abbandonato al suo destino di devastazione, ma la tragedia del sisma in Italia centrale si avvia, come altri (Veneto, Irpinia) a superare quel caso emblematico. Nell’area colpita con durezza inaudita, dopo molti mesi la rimozione delle macerie è ferma a un vergognoso 8%. La promessa di ospitare i terremotati in casette di legno è stata rispettata in misura ridotta, gli alunni dei paesi colpiti sono emigrati in scuole della costa adriatica. Raro il ripristino di stalle e il traguardo finale della ricostruzione è un miraggio. Il pellegrinaggio di uomini delle istituzioni nei luoghi del disastro per garantire “lo Stato c’è, non vi abbandoneremo” suona come una beffa, tipica delle parole al vento dei marinai. Se n’è andato da poco un prete che con qualche anno in meno avrebbe meritato di condividere, fianco a fianco, la rivoluzione culturale del Vaticano. Don Riboldi, amava che gli si rivolgesse così, semplicemente, dopo anni di assenza dello Stato nella terra del Belice devastata dal sisma, ha capitanato la spedizione romana di protesta per rivendicare il diritto negato della rinascita. Più tardi, vescovo di Acerra, ha vissuto sotto scorta, protetto per salvare la sua preziosa vita dalle minacce di morte della camorra, contro cui la lottato con coraggio e abnegazione.

Il tempo dal punto di vista della capacità di sfumare il ricordo di tragedie è maestro. La tensione positiva della comunità nazionale, gli slanci di solidarietà, l’alacrità dei primi interventi, si coniugano con la presenza intensiva di politici sui luoghi del disastro.

I media: accompagnano con mezzi adeguati gli eventi disastrosi, specialmente alluvioni e terremoti, con dovizia di presenze nei telegiornali e con speciali. Poi, l’attenzione e la vigilanza, quando sarebbero occhi aperti per indagare sui processi di restauro della normalità, diradano la presenza sui luoghi colpiti, fino quasi a dimenticare (o a far dimenticare). E’ successo, meno in Emilia Romagna, regione ad alta qualità nella gestione delle emergenze, molto meno in Veneto per accertata competenza e alacrità, consolidata intraprendenza e gestione dell’autonomia. Sono interessanti eccezioni.

L’evento catastrofico che ha fatto piegare le ginocchia alle popolazioni del centro Italia riporta invece la riflessione sull’inconsistenza del sistema italiano in tema di sciagure provocate dalla natura. Per mesi i Paesi colpiti da un’impressionante sequenza di scosse sono rimasti cumuli di macerie, economie disastrate, insopportabili disagi degli abitanti aggravati da freddo, pioggia, neve, disperazione di chi ha perso familiari, casa, attività, lavoro.

Un dettaglio, tutt’altro che trascurabile: alla consegna di un piccolo nucleo di casette provvisorie i destinatari hanno scoperto difetti e disfunzioni di ogni genere. Porte d’ingresso che non si chiudevano, mancati collegamenti di acqua e luce, infiltrazioni della pioggia. Con lodevole tempestività è intervenuto il capo della protezione ma sentite come ha commentato l’episodio: “Sì, ho constatato questi episodi ma abbiamo provveduto”. E no, bisognava intervenire in partenza, prima della consegna. Ma è solo una goccia d’acqua, pure rilevante, se confrontata con i ritardi nel restituire a un’area di straordinaria bellezza, storica meta di turismo stanziale e temporaneo, il ruolo di polo felice degli Appennini. Le incertezze sul suo futuro sono imbarazzanti. Si ricostruiranno i centri colpiti esattamente com’era prima delle spallate del terremo e con quali garanzie antisismiche, la crepa chilometrica che ha spaccato il territorio è destinata ad allargarsi e a compromettere l’idea di ricostruzione in loco? Si mozzeranno le mani degli speculatori in agguato per arricchirsi aggiudicandosi illecitamente gli appalti?

La lunghezza inconsueta di questa premessa sovrasta il racconto che segue, ma è indispensabile per collocare la storia sociale di Remigio e Cristiana, 71 e 68 anni, contadini di Arquata.

La prima spallata del sisma ha raso al suolo la casetta dove hanno cresciuto tre figli, emigrati in Germania. A non più di cinquanta metri è crollata la tettoia della stalla che proteggeva dalle intemperie il bestiame: mucche, pecore, asini e galline. Remigio rifiuta di ripararsi nella tendopoli allestita in un largo spiazzo ai piedi del paese. A chi lo invita a mettersi al coperto, risponde “Gli animali non li lascio”. Cristiana non può fargli compagnia. Soffre di artrite deformante, responsabile l’umidità della casetta costruita in economia. Non hanno modo di comunicare, il cellulare è un “marchingegno moderno, buono per i nostri nipotini”. E’ difficile inerpicarsi fu lassù dove Remigio è asserragliato con gli animali e se ne deve far carico, con faticose discese e risalite, per procurarsi il mangime e quanto gli occorre per sopravvivere in condizioni estreme. L’inviato di un giornale locale lo raggiunge per raccontare la sua storia di triste solitudine e di abbandono.

“Remigio, come ve la cavate?” “Come vedete, mi arrangio. Le bestie hanno bisogno che io sto qua”. “Avete notizie di vostra moglie?” “Ogni tanto, quando qualcuno sale fino a quassù”. “Di notte fa freddo” “Lo so, mi hanno portato delle coperte, ah, anche una bottiglia di brandy”. “E cosa sperate?” “Che la terra la smetta di tremare. La paura è la mia compagna di ogni notte”.

L’articolo finisce sul tavolo del governo. Il ministro si consulta con la struttura di vertice della Protezione Civile e il caso di Remigio diventa appunto un caso. Una squadra di operai edili raggiunge la stalla e si mette all’opera per ripristinare il riparo degli animali. Un’altra fornisce Remigio di abbondante cibo per alimentarli. Altri tracciano un sentiero abbastanza percorribile per consentire all’anziano contadino di scendere nella tendopoli e risalire quando è necessario. Ora può anche assistere Cristiana, che si rasserena. La storia diventa rapidamente lo strumento di amplificazione dell’efficienza degli interventi nelle aree del sisma. Purtroppo, a distanza di un anno e mezzo dal sisma le macerie sono sempre lì e non tutti i terremotati hanno ricevuto il minimo conforto delle casette provvisorie. A sentire i politici della maggioranza si smentiscono ritardi e inadempienze. “Il governo è vicino alle popolazioni colpite, con qualche prevista difficoltà”.

Il dissenso degli assegnatari parla una lingua a loro sconosciuta. Sono voci pacate, ma comunque ad alto volume, di alcuni privilegiati che hanno ricevuto le chiavi delle “casette”, ma anche la sgradita sorpresa di infiltrazioni, impianti elettrici e idrici non collegati o non funzionanti, porte d’ingresso che non si chiudono, elettrodomestici non attivi. Non è il peggio. Per molti altri l’attesa di un riparo vero è ancora motivo di disagio insopportabile, o di lontananza dalle comunità espulse dal terremoto.

Il rischio di crollare nel tunnel buio della depressione cresce con il passare del tempo e le speranze di tornare alla normalità in tempi ragionevoli svaniscono portandosi dietro tutte le negatività: nella famiglia dei Guerini si sommano con effetti moltiplicatori. Il soggiorno coatto in un ospitale albergo del litorale costringe Gemma, ostetrica di lungo corso, ha spostamenti defatiganti per correre ad assistere le partorienti. Fernando, il primo figlio, universitario, si arrangia in coabitazione con altri due studenti in un mini appartamento della capitale e riesce a fatica a sfamarsi. La piccola Teresina stenta ad ambientarsi nella scuola di Porto San Giorgio. E’ malata di nostalgia per il suo paese, le amiche, la palestra dove si allenava per partecipare alla rassegna nazionale di ginnastica a corpo libero. Sull’intera famiglia pesa la sofferta inattività di Luigi, capofamiglia che per decenni, ogni mattina ha tirato su la saracinesca del “Bar dello Sport” ridotto un cumulo di macerie dalla spallata del terremoto. Segnali preoccupanti di tendenza a togliersi la vita sono solo in sospeso, sventati dall’assistenza di un esperto psicologo della Asl di Ancona, inviato nei luoghi che ospitano i terremotati per fornire assistenza professionale.

“Una famiglia come tante la nostra, forse più serena di altre, unita, con grande fiducia nel futuro. Non so più cos’è, ditelo voi, non lo so più”. Luigi non ha molta voglia di rispondere all’inviato, continua a guardare nel vuoto, come se lo sguardo senza meta possa disegnare il sogno che la terra non abbia mai tremato, fino a cambiargli la vita.

Ne sa davvero qualcosa chi ha il compito di restituire alle sventurate vittime la normalità? La storia e la cronaca recente rispondono elencando lentezze, inerzie, difficoltà burocratiche, mancanza di attenzione quotidiana al rispristino di condizioni di vita accettabili. Lo sfondo dell’illecito è in agguato. Imprese edili border line, ai limiti del lecito, portano il solito assalto a suon di milioni agli appalti della ricostruzione e mettono in forse la qualità e la sicurezza antisismica di quanto dovrà far rivivere le comunità distrutte dalla terra che ha tremato.

 

Lascia un commento