Condanna per babbo Renzi – E Travaglio scopre l’Italia feudale delle norme sulla diffamazione

E’ a dir poco sconcertante l’iniziativa di Marco Travaglio, che in un editoriale di qualche giorno fa chiedeva soldi ai lettori per pagare i 95mila euro della condanna da lui subita in seguito alla pubblicazione di articoli sul padre di Matteo Renzi.

Ha mai saputo niente, il direttore del Fatto, della condanna ad identico importo – novantacinquemila euro – che nel 2014 ottenne contro la Voce una amica di Antonio Di Pietro per un articolo dei un giornalista Rai, facendo chiudere il giornale dopo trenta anni in edicola di giornalismo militante anticamorra?

Certo che lo ha saputo, quanto meno dal suo amico di vecchia data, lo stesso Antonio Di Pietro, il quale non avrà mancato di vantarsi con Travaglio della “lezione” assestata al giornale che per primo aveva pubblicato i documenti di Elio Veltri sugli immobili milanesi di proprietà dell’ex “simbolo” di Mani Pulite.

Antonio Di Pietro. Sopra, Marco Travaglio in una foto tratta dal quotidiano Il Dubbio

Si è mai domandato Marco Travaglio come fosse possibile che un giornale di modeste dimensioni economiche, qual era la Voce, e non da bilanci milionari (qual è Il Fatto), potesse essere condannato a risarcire quasi centomila euro, NON al padre di un primo ministro in carica, bensì ad una sconosciuta insegnante in pensione di Montenero di Bisaccia? Qualcuno lo ha raccontato, a Travaglio, che esecuzioni forzate e pignoramenti azionati dalla signora amica di Di Pietro hanno fatto registrare un accanimento pari solo a quello della DDA contro i boss mafiosi, privando i giornalisti della cooperativa che editava la Voce anche dei mezzi minimi di sussistenza?

Ci siamo guardati bene, in quella circostanza – durata oltre tre anni e dagli effetti tuttora in corso – dal chiedere denaro ai nostri lettori, benché la condanna fosse di importo pari a quella comminata oggi al Fatto. Ci sarebbe sembrato ingiusto. Non è colpa dei lettori se l’Italia, unica nazione nel mondo civile, ha una legge sulla diffamazione che risale al 1948 ed è pari a quella dei regimi dittatoriali. Travaglio lo sa bene. Eppure finora sull’argomento non abbiamo mai ascoltato, nemmeno dalla sua autorevole posizione di opinionista televisivo, una sola parola in merito. Gli unici che sul punto continuano a dare battaglia sono Ossigeno per l’informazione, che con Alberto Spampinato ha sostenuto dal primo momento le battaglie della Voce, e personalità avanzate del sindacato, dal presidente Beppe Giulietti al segretario campano Claudio Silvestri. Che però restano, ad oggi, vox clamans in deserto. Il governo, anzi, procede spedito in direzione opposta e contraria.

Qualcosa di positivo, peròa, in questo ennesimo calcio in faccia alla dignità del giornalismo italiano, c’è: Marco Travaglio si è accorto che fare giustizialismo ad oltranza, partendo dal postulato davighiano che tutto-il-mondo-è-colpevole- ma-per-fortuna-che-c’è lui, forse è sbagliato. Vuoi vedere che adesso, oltre a pregare i lettori di mettere mano alla tasca, il direttore del Fatto scopre che bisogna battersi per allineare l’Italia ai Paesi civili, varando leggi adeguate sulla diffamazione?

 

 

 

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