IL CASO MINZOLINI E LA MANCATA DECADENZA

Luigi Manconi, senatore del PD, presidente della commissione Diritti Umani, garantista storico, è uno dei 19 senatori dem che hanno votato contro la decadenza dell’ex direttore del TG1 Augusto Minzolini condannato definitivamente per peculato alla pena di due anni e mezzo di reclusione. Intervistato, in proposito, da “La Repubblica” il 20 marzo 2017, il Manconi ha dichiarato: “La cosa sorprendente è sentire che il voto del Senato fosse solo un automatismo o una semplice ratifica. Ma perfino la ratifica può essere accordata o meno. Votare sì o votare no è esattamente quanto previsto dalla Severino. Oggi sento anche che il Senato doveva fare solo una sorta di verifica di legittimità: come se fosse una super Cassazione o una Consulta suprema. Il Senato invece non ha svolto il ruolo di 4° grado di giudizio, ma ha valutato uno degli effetti della condanna, la decadenza”.

L’affermazione – al pari di altre paradossali dichiarazioni quali ad esempio quella del Senatore Giorgio Tonini secondo cui “il mandato democratico non può essere revocato nel caso di un uso politico della giustizia” – è sorprendente perché la maggioranza dei parlamentari ha fatto esattamente quello che, proprio secondo Manconi, non doveva fare. Infatti, essa non si è limitata a “valutare” uno degli effetti della condanna (che si risolveva unicamente nella doverosa presa d’atto della decadenza già avvenuta ope legis), bensì ha svolto proprio il ruolo di 4° grado di giudizio” entrando, appunto, nel merito della decisione (prendendo in considerazione l’assoluzione del Minzolini in 1° grado, la partecipazione al collegio di appello di un magistrato che anni prima era stato parlamentare del PD, ecc.).

In sostanza, il Parlamento non era affatto chiamato ad una “valutazione” né giuridica né “politica” della decisione della magistratura, ma doveva semplicemente prendere atto della decadenza che conseguiva – per effetto di una cogente disposizione di legge – necessariamente ed automaticamente ad una sentenza irrevocabile di condanna, e provvedere conseguentemente alla sostituzione del parlamentare, del quale si era verificata irrimediabilmente la decadenza, con il primo dei non eletti.

Conseguentemente deve ritenersi che i parlamentari che hanno votato contro la decadenza abbiano arbitrariamente disapplicata una legge dello Stato, verificandosi così un ingiusto vantaggio per il collega al quale è stato consentito di rimanere in carica godendo dei relativi benefici anche di natura economica.

Né sembra che, nel caso di specie, possa farsi ricorso al disposto dell’articolo 68 della Costituzione secondo cui: “I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni”.

La ratio della norma è quella di consentire ai parlamentari di svolgere il loro lavoro liberamente e senza interferenze; ma ciò presuppone che il parlamentare – come avviene di regola – abbia la facoltà di esprimere o il proprio assenso o il proprio dissenso riguardo ad una determinata proposta o ad un determinato provvedimento; abbia, cioè, libertà di scelta e di manifestare in proposito le ragioni del suo assenso o dissenso, così liberamente esercitando il proprio mandato, ma non quando la norma di legge lo vincoli ad un determinato comportamento in ordine al quale non ha alcuna facoltà di scelta, alcuna discrezionalità dovendo soltanto dare applicazione alla legge cui anche il parlamentare è soggetto, come tutti gli altri cittadini.

 

* Antonio Esposito, già presidente Seconda Sezione Panale Corte di Cassazione

 

 

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