ESPRESSO / LO SCOOP LENTO SUI FRATELLI ROCCA E IL TESORO DI SAN FAUSTIN

Colpaccio dell’Espresso che scopre “dove si nasconde il tesoro della famiglia Rocca”. Peccato che quella ‘cassaforte’ di San Faustin celata in Lussemburgo fosse nota da tempo, come avevano già documentato il Corriere della Sera e la Voce (vedi link in basso).

Ma il settimanale ci riprova con un’altra notizia bomba: ossia l’indagine per corruzione internazionale a carico dei fratelli Rocca e della loro Tenaris. Una bomba carta, un tric tracpurtroppo, perchè è da un paio d’anni – e non, come scrivono Vittorio Malagutti e Stefano Vergine nel loro lungo reportage, da “qualche settimana” – che la Procura di Milano indaga sulla maxi commessa Petrobras, che vede coinvolte sia la Saipem, leader parapubblica nell’impiantistica petrolifera, che la Techint (e non la Tenaris) di casa Rocca.

Un’inchiesta, quest’ultima, che fa il paio con la celebre Lava Jato, la Mani pulite in salsa carioca  costata il rinvio a giudizio per Ignazio Lula da Silva (che però già scalda i motori per la prossima nomination!) e per la sua delfina Dilma Rousseff, la quale per ora ha perso la poltrona presidenziale.

Vediamo qualche passaggio dell’articolo, 4 pagine dense di sigle, incroci, maxi tabelle e super foto. Titolo Roccaforte, in rossonero; sommario, “una dinasty sparsa tra Italia e Sudamerica, che controlla un impero da 30 miliardi. Eppure dei Rocca si sapeva pochissimo. Ora l”Espresso rivela dove e come nascondono il tesoro di famiglia”.

Gianfelice Rocca. In apertura l'articolo dell'Espresso

Gianfelice Rocca. In apertura l’articolo dell’Espresso

Eccoci nel labirinto dei misteri, percorso dagli esploratori Malagutti e Vergine, a cominciare dalle ovattate stanze di una palazzina immersa nel verde della periferia di Lussemburgo, dove il 2 novembre si è svolta l’assemblea dei soci San Faustin. “Un elenco lunghissimo – scrivono – chiuso a doppia mandata in un caveau della Bsi, la Banca della Svizzera Italiana con sede a Lugano. L’identità esatta dei soci della San Faustin è un segreto ben custodito da decenni, ma l’Espresso ha avuto accesso al gigantesco libro di famiglia dei Rocca”; e consultando le carte ha disegnato “la mappa di una enorme ragnatela off shore”, popolata da una sfilza di trust, che con gran cura vengono elencati in grassetto.

Ma dire trust – lo sanno anche gli studenti al primo anno di economia – non significa scoprire il volto né l’identità dei soci, che continuano e rimanere totalmente coperti, come veri incapucciati (anche se non necessariamente massoni).

E infatti, al termine dell’off shore tour, si arenano le ammiraglie di casa De Benedetti. “La maggioranza del capitale della San Faustin – viene precisato – risulta intestata a una fondazione privata olandese, la RP Stak. Ed è qui che finora si è sempre interrotta la ricerca dei soci in carne e ossa di Tenaris. Infatti, come dichiarato alla Sec, la Consob americana, ‘ nessuna persona o gruppo di persone controlla la Rp Stak‘. Tutto vero perchè, come abbiamo visto, dietro la fondazione compare una pattuglia di società registrate in paradisi fiscali off shore come Panama e le British Virgin Islands”. Proseguono Vergine e Malagutti: “Al piano superiore della catena di controllo ci sono decine di trust amministrati dalla Banca della Svizzera Italiana. Questo gioco di specchi finanziario ha fin qui impedito di far luce sui reali assetti di controllo del gruppo Tenaris”.

E allora?

Passiamo all’inchiesta meneghina che fa spalancare gli occhi ai due giornalisti che così allibiscono: “nelle scorse settimane ha fatto scalpore la notizia delle indagini per corruzione internazionale avviate dalla procura di Milano nei confronti dei fratelli Gianfelice e Paolo Rocca. Il sospetto, nato dalle dichiarazioni di un manager pentito, è che Tenaris abbia pagato mazzette per aggiudicarsi commesse dal gruppo petrolifero brasiliano Petrobras”.

Sospetto? L’inchiesta condotta Fabio De Pasquale (da un vita sulle piste delle corruzioni targate Eni, poi Sapiem, quindi di casa Rocca) e da altri due pm della procura di Milano è iniziata un paio d’anni fa, affiancando come detto l’iter delle analoghe indagini condotte dal pool di Lava Jato.

La sigle made in Rocca sotto i riflettori è la Technit – non Tenaris, peraltro al centro di indagini giudiziarie in Argentina, dove è la regina degli appalti sul fronte dell’acciaio – ossia la creatura prediletta dei fratelli, vent’anni fa guidata con piglio sicuro da Paolo Scaroni, poi passato ai vertici Eni e – guarda caso – sotto inchiesta per altri maxi appalti e altre megamazette, e sempre per corruzione internazionale, dall’Algeria alla Nigeria. Caldo caldo il rinvio a giudizio deciso dalla procura milanese a carico suo e dell’attuale numero uno di Eni, Claudio Descalzi, per l’affaire nigeriano.

Sulla Techint, beneficiaria a inizio ’90 di grossi finanziamenti via FAI, indagava Ilaria Alpi. E ha scritto articoli di fuoco l’inviato speciale del Corsera in Somalia, Massimo Alberizzi: la cui testimonianza, insieme ad altre (in primis le rivelazioni del testimone oculare taroccato, Ahmed Alì Rage detto Gelle, intervistato per Chi l’ha visto da Chiara Cazzaniga), ha appena permesso alla Corte d’Appello di Perugia di assolvere un innocente che ha scontato 16 anni di galera, Omar Assan Hashi. E di scoperchiare quel vaso di Pandora, fatto di depistaggi e collusioni ai più alti vertici.

 

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