Separati in casa o nemici nel Pd?

Giacomo Devoto & Gian Carlo Oli, dizionario della lingua italiana, edizioni Le Monnier, ristampa del 1974, pagina 860: “faida” = “vendetta privata per un’offesa ricevuta”. Faida è abituale parola da cronaca nera e racconta di eccidi tra bande rivali. Ucciso un malavitoso di una gang, la risposta è l’omicidio di un componente del clan avversario. Qualche benpensante giudicherà improprio ricorrere a questo termine per rappresentare quanto accade nel Partito Democratico, ma come definire altrimenti la guerra intestina che vede gli uni contro gli altri armati maggioranza e opposizione, renziani contro bersaniani, Speranza contro Orfini, Cuperlo contro Serracchiani e Fassina contro tuti? L’acme della diatriba intra dem si propone nei giorni caldi che hanno preceduto il voto del 5 giugno e in questi, vigilia dei ballottaggi. Prima riflessione: molto probabilmente, in tempo di pace il Pd avrebbe eletto al primo turno i sindaci di Milano, Torino, Bologna, avrebbe portato allo spareggio la Valente, a Napoli, e Giachetti a lottare inizialmente alla pari con la Raggi a Roma. Così non è e nel clima torrido di questo mercoledì preelettorale c’è motivo per etichettare con la parola “faida” la vendetta di un vecchio, storico leader dei democratici, al secolo Massimo D’Alema che ha pronunciato parole velenose, incompatibili con l’appartenenza (fino a quando?) nel partito democratico. Eccole: “A Roma voto per la Raggi e invito chi mi chiede a fare altrettanto pur di cacciare Renzi”. Così riferisce chi gli è vicino. D’Alema è lo stesso greve personaggio che alla vigilia delle elezioni regionali in Puglia, ospite di Fazio a “Che tempo che fa” sparlò del candidato della sinistra Vendola, con evidente sforamento nella scorrettezza e non solo politica.

A minare la stabilità di Renzi D’Alema non è solo. Contro il premier c’è un ampio schieramento di picconatori che per ragioni opposte provano a disarcionarlo. Che lo facciano Lega, Forza Italia, destra moderata ed estrema, è come dire, normale. Di più difficile interpretazione è già la guerra senza risparmio di colpi alla luce del sole e subdoli dei grillini, ma considerata l’evidente libido di ometti come Di Maio per ruoli istituzionali di primo livello si può perfino capire l’acredine in parlamento e fuori. Indecifrabile è la lotta sistematica degli uomini di potere esautorati dalla segreteria Renzi. Come definire lo svecchiamento se non un fisiologico e salutare ricambio generazionale? La chiave per risolvere il rebus che ha come figure di riferimento da interpretare consumati politicanti come D’Alema è questione generale della politica italiana che concede, quasi fino alla morte, di rimanere avvitati alle poltrone del potere. Nel Pd, sono solidali a questa idea di immortalità politica gli over 60-70 di diversa estrazione: dai veterani del Pci agli ex democristiani. Il più affamato, nonostante incarichi prestigiosi e ben remunerati, è certamente D’Alema che, per dirne una, lavora per una rete di comitati del “no” al referendum sulla riforma costituzionale, nella speranza che prevalga e che il Presidente del Consiglio confermi l’impegno a lasciare in caso di sconfitta del “sì”. Anche il boicottaggio dei candidati a sindaco di Roma e Milano è parte del disegno che si propone di indebolire Renzi. Nel frattempo si perfeziona la trama con il corregionale Emiliano, governatore della Puglia nell’ipotesi che possa essere il successore del premier e si strizza l’occhio all’ex sindaco di Roma Ignazio Marino, si tifa per Bobo Craxi in opposizione al socialista Nencini che si è schierato per il “sì” al referendum. Non ci vuole la Sibilla per pronosticare che finirebbe dalla padella alla brace chi ritiene che D’Alema, di là dalla critica i meriti acquisiti da Renzi come premier, sia l’elisir in grado di scongiurare il pericolo per la sinistra storica di finire in un’edulcorata alleanza “tutti dentro” (partito della nazione o simili). Di che lamentarsi se il disincanto degli italiani cresce ad ogni tornata elettorale?

Nella foto Bersani e D’Alema

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