TUTTE LE MAZZETTE INTERNAZIONALI DI SAIPEM E ENI. MA SCARONI E DESCALZI POSSONO SEMPRE NON SAPERE?

Saipem, il braccio petrolifero del colosso Eni, nella bufera. Tre maxi inchieste di corruzione internazionale – praticamente oscurate dai media – per maxi appalti in Algeria, Nigeria e Brasile. Tre storie di lavori all’estero, funzionari pubblici comprati, politici corrotti fino ai più alti livelli istituzionali. Possibile mai che una società di quel livello continui ad operare allegramente in un mare “nero” – è il caso di dirlo – di collusioni & corruzioni? E possibile mai che all’Eni (che entra “tangenzialmente”, almeno per ora, nelle vicende) non alzino un dito, che la “controllante” non prenda lo straccio di un provvedimento, che il rinomato “cane a sei zampe” non abbai nemmeno per un attimo? Ma vediamo in rapida carrellata i tre casi: il primo da 200 milioni, il secondo da 1 miliardo, il terzo – la ciliegina brasiliana da almeno 3 miliardi di euro (ma forse molti di più), la mazzetta del secolo.

Claudio Descalzi

Claudio Descalzi

Partiamo dall’Algeria. E dal fresco, controverso provvedimento del gup del tribunale di Milano, Alessandra Clemente, che rinvia a giudizio Saipem, i suoi ex amministratori (Pietro Tali), vertici amministrativi (l’ex direttore finanziario Alessandro Bernini e l’ex direttore operativo Pietro Varone), e alcuni faccendieri algerini, in primis Farid Bedjaoui. Ma assolve da ogni addebito la casa madre, ossia Eni, e soprattutto l’allora (i fatti risalgono al quinquennio 2006-2010) numero uno Paolo Scaroni. Il quale, secondo il gup, poteva tranquillamente “non sapere” cosa i suoi controllati e dipendenti facevano. Non poteva nemmeno esserne a conoscenza, l’immacolato Scaroni, dal momento che gli indizi su Eni e su di lui sono “insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l’accusa in giudizio”: nessun dibattimento, dunque, nessun teste che possa raccontare i viaggi delle tangenti milionarie, tutto chiaro per il gup. Più in dettaglio, per un appalto “il fatto non sussiste”, per gli altri sei la motivazione del proscioglimento è “non aver commesso il fatto”. Colpo di spugna anche per l’allora responsabile Eni per il Nord Africa Antonio Vella, il quale è oggi una delle tre pedine-base al fianco dell’attuale amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi. Ci sarà di certo rimasto male l’ex responsabile di Saipem in Algeria, Tullio Orsi, che aveva pensato bene di patteggiare 2 anni e 10 mesi di reclusione, compresa una confisca da ben 1 milione di euro.

Ma vediamo più da vicino chi è il misterioso intermediario delle mazzette algerine Farid, detto “il Giovane”, nelle pagine dell’inchiesta. Alla sua società Pearl Partners – secondo le minuziose ricostruzioni dei pm meneghini – sono arrivate le mazzette di Saipem, e poi smistate (tranne ovviamente la sua lauta commissione) a plenipotenziari e burocrati del paese nordafricano attraverso conti correnti acquartierati in Svizzera, Libano e Dubai. Ma il beneficiario principale era proprio l’allora ministro algerino dell’Energia, Chekib Khelil, detto “il Vecchio”. Conti alla mano, 200 milioni di mazzette per ottenere 7 contratti per un totale-appalti da circa 8 miliardi di euro. E fra le carte spunta anche una faraonica villa da 2 milioni di euro comperata dal ministro negli Usa: lo hanno accertato i pm attraverso faticose rogatorie; palese, parziale reinvestimento della mazzetta.

Nei faldoni giudiziari fanno capolino due circostanze da non poco, e poco tenute presenti dal gup nel benedire l’uscita di Eni & Scaroni dalla scena penale. Ecco la prima. Nei verbali d’interrogatorio effettuati dai pm milanesi (Fabio De Pasquale, Giordano Baggio e Isidoro Palma) salta subito agli occhi quello con lo stesso Scaroni, meno di tre mesi fa, luglio 2015. I pubblici ministeri, in particolare, chiedono se l’attuale numero uno Descalzi e l’ex responsabile Eni della divisione Exploration and Production, Stefano Cao, oggi amministratore delegato di Saipem, abbiano mai conosciuto Farid. Così risponde Scaroni: “di questo non ne sarei così sicuro, almeno per quanto riguarda Descalzi a leggere le carte”. Meno oscuri di così… Non basta, perchè in modo altrettanto non criptico, a proposito di Cao, rivela: “era al corrente che vedevo Farid e dei temi trattati”. Parole finite nel vuoto giudiziario…

Seconda circostanza, una telefonata tra ex, Scaroni e il ministro dello sviluppo economico nell’esecutivo Monti, Corrado Passera. Spiegava il primo: “io sono pure d’accordo che siano in qualche modo delle tangenti legate alla politica algerina, non sappiamo bene a chi, ma a qualche algerino”. Parole che poi l’allora vertice Eni ridimensionerà (“la telefonata del ministro riguardava un altro tema, adesso è inutile dirlo”): e il gup non terrà in alcuna considerazione (come anche l’eventuale, pur possibile coinvolgimento di Descalzi, un altro che però “strapoteva non sapere”).

Ma è soprattutto un’altra circostanza a destare molti sospetti. Ossia la clamorosa marcia indietro, il cambio di versione a U operato dal manager Saipem Pietro Varone, in un primo momento grande accusatore, capace di ricostruire i termini dell’operazione. I pagamenti al ministro dell’Energia – aveva dichiarato Varone – sono stati decisi dallo stesso Scaroni in due incontri, ad Algeri e a Parigi. La galera, però, gli ha fatto cambiare parere. E nel corso dell’incidente probatorio ha perso la memoria, dimenticando ogni circostanza relativa alla supermazzetta versata, attraverso Farid, al “Vecchio” ministro. Ora, comunque, Varone si becca il rinvio a giudizio.

Passiamo alla Nigeria. L’importo della tangente lievita, siamo ora a 1 miliardo di euro. E sul banco degli imputati, anche stavolta per corruzione internazionale, sia il vecchio che il nuovo vertice di Eni, ovvero Scaroni e Descalzi, sotto inchiesta per un appalto 2011 relativo all’acquisto di un ricco giacimento petrolifero.

Ricostruiamo i fatti. All’epoca Descalzi era a capo della divisione “Oil & Gas” di Eni. Ma nell’affare sono coinvolti altri pezzi da novanta. Come il faccendiere Luigi Bisignani, oggi star letteraria di Chiarelettere; e l’allora responsabile della Nigerian Agip Exloration Ltd, la controllata di Eni in Nigeria, ossia Roberto Casula. E anche stavolta c’è un intermediario locale, Emeaka Obi, tramite per corrompere funzionari pubblici nigeriani e ottenere disco verde per l’esplorazione petrolifera. Così ricostruisce il sito “International Business”: “nell’ambito dell’inchiesta a Obi sono stati sequestrati due conti, uno inglese e l’altro svizzero, per un totale di 190 milioni di euro. Emblematici, secondo gli inquirenti, alcuni incontri avuti da Descalzi con altri protagonisti dell’indagine. Nel febbraio 2010, l’attuale Ad di Eni sedeva al tavolo con Etete (ex ministro del petrolio nigeriano), Obi e Agaev (altro intermediario). Ancora, dall’agosto all’ottobre dello stesso anno, Obi si è incontrato frequentemente con Eni e in particolare con Descalzi”.

Terra di conquista, la Nigeria. Ma anche fonte di grossi grattacapi. Stavolta siamo a Bonny Island, nel sud del paese, dove Snamprogetti era impegnata nella costruzione di un impianto di stoccaggio e trasporto del gas. Il periodo dei “lavori” copre quasi un decennio e va da metà anni ’90 a metà 2000. Il solito copione: super mazzette in cambio di appalti, stavolta camuffati – incredibile ma vero – da “costi culturali”. Così scrivono gli inquirenti (pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro): “si erano istituiti dei committee che dovevano decidere sui ‘cultural cost’, che altro non erano che le dazioni corruttive, in realtà ingenti pagamenti” e i destinatari “erano certamente dei pubblici funzionari” e in particolare “il principale destinatario era lo stesso presidente della repubblica nigeriana”. Le toghe, poi, sottolineano come “negli atti transattivi con le autorità estere, Snamprogetti, Saipem ed Eni avevano ammesso tutte le circostanze di fatto che conducevano a qualificare le condotte tenute come atti di corruzione”. I politici nigeriani, dal canto loro, hanno trascurato “del tutto le ragioni e gli interessi del Paese per i loro personali interessi economici”.

La Corte d’Appello di Milano ha condannato Saipem ha una sanzione pecuniaria di 600 mila euro e ad una confisca da ben 24,5 milioni di euro.

Alla fine del super tour mazzettaro, eccoci in Brasile. Alla tangente del secolo che può mandare in crisi l’intero establishment carioca, dal capo dello Stato Dialma Roussef a tutta la classe politica – soprattutto di governo ma anche di opposizione – comprata a suon di miliardi (di dollari) per gli appalti della compagnia di stato Petrobras. Uno scandalo che può andare dai 3 miliardi e mezzo di nero già accertato dagli inquirenti locali, fino a un incredibile tetto da 25/27 miliardi di dollari, da vero Guiness nella corruzione internazionale. Sì, perchè anche stavolta la nostra Saipem è indagata per corruzione internazionale (con Petrobras) sia dalla procura verdeoro che da quella di Milano, pm Fabio De Pasquale e Isidoro Palma, che hanno già ricostruito altre acrobazie finanziare e corruttive dei nostri colossi energetici e petroliferi.

Al centro delle indagini anche la Techint del gruppo Rocca, con un Gianfelice che, giorni fa, ha smentito di puntare alla poltrona di numero uno di Confindustria per il dopo Squinzi ormai alle porte. Saranno i grattacapi giudiziari che lo invitano alla prudenza? Gli affari esteri del gruppo di famiglia che danno non poche preoccupazioni, dal Brasile fino alla Somalia? Per ora, al numero uno di Assolombarda, basta essere nel hit dei Paperoni d’Italia. E rimanere il più defilato possibile…

 

Nella foto di apertura, Paolo Scaroni 

 

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INDAGATA PER CORRUZIONE INTERNAZIONALE LA TECHINT DI GIANFELICE ROCCA IL PROSSIMO NUMERO UNO DI CONFINDUSTRIA

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